Ciao,
sono Ivo Silvestro e questa è la 78ª edizione della mia newsletter settimanale di segnalazioni e riflessioni.
Oggi parliamo di blackface e polarizzazione, linguaggio inclusivo e punti decimali.
Ma prima una foto: le “tre T” di Max Huber, davanti al m.a.x.museo di Chiasso.
Parliamo di noi
Ogni tanto mi ricordo di guardare le statistiche di questa newsletter. Nei giorni scorsi l’ho fatto e ho notato che l’edizione uscita domenica, anziché venerdì, è stata tra le più lette nelle prime 24 ore dalla pubblicazione.
Vedo inoltre che aumentano le persone che si disiscrivono – il che è normale, e son comunque di più i nuovi iscritti, ma insomma mi chiedo se sia il caso di cambiare qualcosa. Solo che se me lo chiedo da solo, poi mi rispondo da solo e ne so quanto prima: meglio chiederlo direttamente alle persone iscritte. E quindi ecco un sondaggio con tre domande (credo che per rispondere sia necessario andare sulla pagina web).
La prima riguarda, banalmente, il giorno di pubblicazione: tengo il venerdì, mi sposto nel fine settimana oppure in un altro giorno della settimana (nel caso indicate in un commento quale)?
La seconda riguarda la lunghezza della newsletter. Dovrei accorciare il pippone iniziale (la parte subito sotto la foto in cui mi dedico allo sproloquio libero), inserire meno segnalazioni (In poche e in pochissime parole), fare due newsletter separate (una col pippone e l’altra con le segnalazioni) o va tutto bene così come è?
E infine la terza: da dove mi leggete? Io vivo e lavoro nella Svizzera italiana e le mie riflessioni spesso partono da eventi locali – poi, vista la mia tendenza a “prenderla alla larga”, faccio discorsi più generali che non si limitano alla semplice cronaca e quindi possono interessare anche chi vive a mille miglia da qui,1 ma sapere da dove vengono lettori e lettrici può aiutarmi a meglio tarare contenuti e segnalazioni.
Nessuna domanda sui contenuti, almeno per ora: il criterio rimane “scrivo quello che mi passa per la testa”, cioè perlopiù cose di filosofia, scienza, disinformazione, crisi climatica, inclusione eccetera.
Ancora sulla Blackface
Avevo già scritto delle polemiche per la decisione, nelle processioni della Settimana Santa di Mendrisio, di non più pitturare di nero il viso di alcune comparse (quelle della corte del re Erode Antipa). Sempre per il discorso “la prendo alla larga”, mi ero dilungato su che cosa è una tradizione e sul perché non è affatto un problema cambiarle, le tradizioni, scrivendo poco o nulla sulla blackface che tendevo a considerare una cosa perlopiù statunitense.
Ebbene: mi sbagliavo. Ho fatto delle ricerche per l’articolo Breve storia della blackface,2 scoprendo molte cose interessanti. La prima è che certo, la cosa di dipingersi il volto di nero per prendere per il culo i neri rappresentandoli come tonti, pigri, superstiziosi eccetera è nata negli Stati Uniti, ma l’idea dei minstrel show, gli spettacoli itineranti che hanno diffuso la blackface, arriva dall’Europa dove c’era tutta una tradizione di teatro popolare il cui scopo, sostanzialemente, era sfottere i poveri. Insomma, negli Stati Uniti hanno preso questi spettacoli e hanno sostituito i neri con i poveri, peraltro ricorrendo di nuovo alla tradizione europea di utilizzare vari trucchi per raffigurare personaggi dalla pelle nera.
Non solo: i minstrel show sono diventati un prodotto culturale di esportazione, ottenendo una certa popolarità anche in Europa (oltre che in Giappone) influenzando anche alcune “tradizioni europee” come quella olandese di Zwarte Piet, l’uomo nero che accompagna San Nicolao e punisce i bambini cattivi. Insomma, la blackface non è solo “una cosa americana”.
E anche se lo fosse, c’è il particolare della asimmetria della pratica:
Un altro elemento importante e spesso trascurato riguarda l’asimmetria di questa pratica: mentre la blackface è, storicamente, una pratica molto diffusa, i casi di ‘whiteface’ – ovvero di attori dalla pelle scura che si dipingono il volto di bianco per questioni teatrali – sono non solo estremamente rari ma sempre giudicati sbagliati, contronatura. Così, quando nella prima metà dell’Ottocento gli attori afroamericani James Hewlett e Ira Aldridge interpretarono – eventualmente sbiancandosi il viso – personaggi quali Riccardo III o Re Lear, si parlò di “palese incongruità”, cosa che nessuno fece di fronte ai tanti Otello scuriti tramite blackface. Questa asimmetria ha senso solo assumendo una gerarchia basata sul colore della pelle, una delle idee alla base dei popoli primitivi e del ruolo salvifico dei civilizzatori europei: un bianco può “abbassarsi” diventando nero – e anzi si apprezza la sua abilità di attore – ma un nero non potrà mai “elevarsi” diventando bianco, la sua vera natura prevarrà sempre.
Prima di passare all’epilogo, cito un po’ di libri e articoli che mi sono stati utili. Il primo, ne avevo già parlato, è Sbiancare un etiope di Federico Faloppa, anche se più che della blackface parla dell’impossibilità del suo opposto. Poi c’è l’interessantissimo Blackface di Ayanna Thompson nel quale si spiega, in maniera semplice ed efficace, che cosa è la blackface, da dove arriva e perché è un problema. Ho poi consultato anche Censoring Racial Ridicule di M. Alison Kibler, Shakespeare, Blackface and Race di Coen Heijes e Inside the Minstrel Mask di Annemarie Bean, James V. Hatch e Brooks McNamara.
E ora, l’epilogo: quest’anno le processioni avranno ancora figuranti col volto dipinto di nero. La fondazione che organizza le processioni ha deciso di congelare la decisione.
Ho scritto un editoriale3 su questa decisione, del quale riporto la parte conclusiva:
Proprio guardando ai possibili sviluppi di questa vicenda, credo sia utile cercare di imparare qualcosa. Un primo insegnamento è che è necessario e urgente adattarsi alle nuove sensibilità presenti nella società; solo che non mi riferisco tanto a chi vuole costruire una società che sia davvero equa e inclusiva, ma a chi vede gli interventi che cercano di andare in quella direzione come una “imposizione dall’alto” e una minaccia per la propria identità. Molto probabilmente una decina di anni fa la decisione di non ricorrere più alla ‘blackface’ sarebbe stata accolta, invece che con la levata di scudi che vediamo oggi, con sbadigli e al massimo qualche sopracciglio alzato. Ma, appunto, oggi la sensibilità è cambiata e tenerne conto vuol dire coinvolgere il più possibile le persone interessate, cosa che in questo caso – ma la Fondazione Processioni Storiche di Mendrisio è purtroppo in buona compagnia – non è stata fatta e anzi, nel comunicato di domenica ancora si è ricordato che la decisione era stata accolta favorevolmente dall’Ufficio federale della cultura, dall’Unesco e dalla Commissione federale contro il razzismo, dando implicitamente ragione a chi teme, appunto, imposizioni dall’alto. Il secondo insegnamento è che, se stiamo importando qualcosa di pericoloso dalle battaglie culturali d’Oltreoceano, non è il politicamente corretto ma la polarizzazione del dibattito. Ma speriamo di essere ancora in tempo e di non svegliarci davvero in un mondo in cui non contano più gli argomenti, ma solo il “da che parte stai”.
Mi ha fatto sorridere che, commentando in una rassegna stampa il mio articolo, il conduttore abbia subito chiesto all’ospite “e tu da che parte stai?”.
Lo confesso: sono sempre più preoccupato dalla crescente polarizzazione che sta riducendo sempre più lo spazio dell’argomentazione e spinge sempre più persone a prendere decisioni in base allo schieramento in cui ci si riconosce, non a una valutazione su quel che accade.
Un piccolo esempio riguarda il nuovo age rating deciso nel Regno Unito per il film Mary Poppins perché in un paio di scene si fa ricorso a linguaggio discriminatorio. Giusto per essere chiari: non hanno modificato il film originale, tagliando scene o riscrivendo dialoghi; non hanno deciso di bloccarne la distribuzione; non hanno nemmeno deciso di proibirne la visione al di sotto di una certa età. Hanno semplicemente indicato ai genitori che nel film ci sono alcune scene che potrebbero risultare problematiche. Nella descrizione del British Board of Film Classification lo si dice chiaramente: “Possono guardare il film bambini non accompagnati di qualsiasi età, ma i genitori sono invitati a considerera se il contenuto può turbare i bambini più piccoli o più sensibili”. Come tutto questo sia diventato, nei titoli di alcuni giornali, “L'iconico film vietato ai minori in GB”, non riesco a spiegarmelo. O meglio me lo spiego: titolando così si alimenta la discussione – con tra l’altro gente che commenta, sui social media, che “invece di censurare sarebbe meglio lascire liberi i genitori di scegliere”, cioè esattamente quello che si è fatto.
In poche parole
Il presidente argentino Javier Milei ha proibito l’uso del linguaggio inclusivo nella pubblica amministrazione. Ovviamente non approvo questa decisione, che si inserisce in un preoccupante contesto di politiche antifemministe e contro l’uguaglianza di genere, ma di per sé questa decisione non mi pare gravissima.
Non mi è chiaro cosa abbia esattamente proibito (anche i femminili professionali e l’impiego di termini collettivi come “il personale” al posto del maschile inclusivo “i dipendenti”?) e da quali documenti, ma se riguarda desinenze che non sono ancora parte dello spagnolo standard da documenti ufficiali come regolamenti e ordinanze, potrei addirittura essere d’accordo. Sarebbe una decisione analoga alla raccomandazione di qualche tempo fa dell’Accademia della Crusca, della quale avevo scritto.
A chi è venuta per primo l’idea di usare i decimali separandoli con il punto? Confesso che non mi ero mai posto questa domanda, ma la risposta è molto interessante: a quanto pare il primo a usare questa notazione, invece di dividere l’unità in sessantesimi come facevano i babilonesi (e come facciamo tutt’ora per le ore e i minuti), è stato un italiano del Quattrocento, tal Giovanni Bianchini. Bianchini era un matematico e un astronomo, ma aveva studiato da mercante e quindi se ne è amabilmente fregato della tradizione babilonese.
Un antropologo è andato al CPAC, la conferenza politica annuale a cui partecipano attivisti conservatori e politici da tutti gli Stati Uniti e dal mondo e ne ha scritto su The Conversation. L’idea di studiare i simpatizzanti di altri movimenti politici come se si trattasse di una qualche popolazione aliena mi lascia un po’ perplesso, ma ci sono alcune considerazioni interessanti.
Donata Columbro ha scritto un interessante articolo sul numero di morti in guerra. I numeri si portano sempre dietro quella aria di obiettività e oggettività ma tutto dipende da come, e da chi, vengono raccolti i dati.
Quello dei dati è un linguaggio e, in quanto tale, uno strumento di comunicazione che contiene una forma di potere: quella che detiene chi decide cosa contare e come raccontare le statistiche raccolte. In una guerra, un’arma in più da non sottovalutare.
In pochissime parole
Il governo britannico ha legiferato in base a una teoria del complotto sui cambiamenti climatici.
Non siamo così d’accordo su cosa sia davvero una specie. Del resto perché la vita dovrebbe uniformarsi alla nostra bizzarra abitudine di catalogare le cose?
E ovviamente l’opposto: annoiare chi vive qui.
Per chi avesse difficoltà ad accedere all’articolo: archive.is/O5ies.
Sempre per chi non riuscisse ad accedere all’articolo: archive.is/Sf661