Ciao,
sono Ivo Silvestro e questa è la 95ª edizione della mia newsletter settimanale di segnalazioni e riflessioni.
Oggi parliamo di moai, di proteste efficaci, di pseudoattivismo e di animali carini e coccolosi.
Ma prima una foto: il promontorio di Sestri Levante visto da Cavi di Lavagna, dove mi trovo per qualche giorno di vacanza (il che spiega il ritardo di questa newsletter, serale anziché mattutina).
Il mistero dell’Isola di Pasqua
Le ferree regole sull’embargo degli articoli scientifici mi ha impedito di parlare, nella scorsa newsletter, dell’Isola di Pasqua. Scrivo “Isola di Pasqua” e non “Rapa Nui” un po’ perché – nonostante la discreta popolarità del film di Kevin Costner1 – il nome dato dagli europei è quello più conosciuto, ma soprattutto perché la ricerca pubblicata più che i primi abitanti dell’isola riguarda come gli europei hanno interpretato la loro storia.
L’Isola di Pasqua è conosciuta essenzialmente per due cose: il migliaio di enormi e iconiche statue, i moai, e la catastrofe ecologica dovuta all’eccessivo e sconsiderato sfruttamento delle poche risorse lì presenti, esaurite proprio per la costruzione e il trasporto dei moai. La storia di questa catastrofa è stata resa popolare da Jared Diamond nel suo best seller Collasso – e forse anche dal già ricordato film2 – ma a quanto pare le cose non sono andate esattamente così. O almeno non siamo sicuri che siano andate così, perché comunque una certa cautela è d’obbligo, anche se non condivisa dai comunicati stampa.
Mi riferisco a una ricerca appena pubblicata su Science advances che, appunto, smentisce la teoria del collasso ecologico e demografico avvenuto prima dell’arrivo degli europei: sull’Isola di Pasqua non sarebbero mai vissute decine di migliaia di persone, ma al massimo due o tre mila e sempre sfruttando in maniera oculata le poche risorse a disposizione. I dettagli li ho scritti in un articolo pubblicato su laRegione;3 riassumendo: dai rilevamenti satellitari risulta che i terreni destinati alla coltivazione sono meno di quello che si pensava e non avrebbero mai potuto produrre cibo per una civiltà organizzata composta da decine di migliaia di persone come si supponeva.
E le prove del collasso ecologico e demografico descritto da Diamond? Qui arriva la parte secondo me davvero interessante (che si trova soprattutto nelle dichiarazioni di uno dei ricercatori, Carl Lipo, fatte durante un incontro con la stampa). Queste prove ci sono, ma sono state interpretate male: resti di pollini di piante scomparse hanno fatto pensare a lussureggianti foreste tagliate per sfruttare il legname, non ad alberi alle prese con un terreno relativamente povero di sostanze nutritive e così via. Perché questo? Perché gli europei hanno visto i moai, hanno visto una popolazione di appena duemila persone senza una organizzazione sociale particolarmente strutturata – e del resto cosa vuoi strutturare, in un villaggio neanche dei più grandi – e si son detti “non possono essere stati loro a costruire quelle statue”. Da qui l’idea di un’altra civiltà e, escludendo quelle aliene, non resta che immaginare una società più grande e complessa che, visto l’isolamento di Rapa Nui, si è autoannientata.
Le idee implicite degli europei – alcune neutre, altre probabilmente dei veri e propri pregiudizi verso le popolazioni non europee – hanno portato a una teoria e quella teoria ha guidato l’interpretazione dei vari reperti. È normale che sia così: l’idea di una osservazione priva di teorie è un’astrazione; è un po’ meno normale, ma comprensibile, l’affezionarsi a una teoria e trascurare o sottovalutare prove contrarie. Quello che non è certamente normale è che la storia del collasso della civiltà di Rapa Nui rimarrà popolare – nella cultura popolare, ma anche in altre discipline che la utilizzeranno come modello e caso di studio – nonostante le ricerche archeologiche l’abbiano smentita o comunque ridimensionata.
Poi ci lamentiamo delle allucinazioni delle intelligenze artificiali.
In poche parole
Su Nature si parla di proteste. Non perché la rivista voglia manifestare per qualcosa – il che sarebbe insolito per quanto assolutamente legittimo – ma per parlare di “scienza delle proteste”. Insomma per capire quando una protesta funziona e quando no.
Due premesse: parliamo di una rivista scientifica, ma l’articolo al quale mi riferisco non è una ricerca scientifica bensì un prodotto giornalistico, cosa che potrebbe non risultare chiarissima citando semplicemente la rivista. Seconda premessa: che vuol dire che “una protesta funziona”? Che la popolazione vengono a conoscenza di un determinato tema prima poco discusso? Che la popolazione si convince che quel tema è molto importante? Che la popolazione decide di fare qualcosa di concreto?
Il contesto di questo articolo sono le proteste ecologiste tipo incollarsi alle autostrade o colorare monumenti e opere d’arte – proteste indubbiamente malviste anche da chi è sensibile al tema: giusto qualche giorno fa sul Washington Post Michael J. Coren ha scritto un articolo molto critico4 sull’ultima protesta di Just Stop Oil a Stonehenge.
A ogni modo, quello che emerge dalle esperienze passate è che, per avere qualche possibilità di funzionare – cioè di portare a un qualche cambiamento –, è meglio che una protesta sia pacifica, abbia un obiettivo ben definito e coinvolga molte persone (circa il 3% della popolazione, ma probabilmente conta molto la parte di popolazione che non scende in piazza ma sostiene la protesta).
Nella scorsa newsletter mi ero lamentato delle bandiere arcobaleno esposte da una grande banca definendole un chiaro caso di Rainbow washing: non un sincero impegno verso la comunità LGBTQ+, ma una semplice operazione di marketing sociale – criticabile non solo guardando alle intenzioni, ma anche alle conseguenze perché esporre un paio di bandiere colorate per un mesetto non è che migliori granché la situazione delle persone.
Ieri sera, non so perché, il mio cervello è tornato a ragionare sul Rainbow washing e più in generale sui casi di “attivismo di bandiera” iniziando ovviamente dal greenwashing. Mi è venuta in mente una analogia con le pseudoscienze: in entrambi i casi abbiamo una adesione solo esteriore a degli standard motivata da ragionamenti di prestigio sociale. Per convincerti a comprare il mio dentiffricio identico ad altri mille più economici, non ti dico che ti rende i denti più bianchi, ma che “test clinici” mostrano denti più bianchi “nell’87% dei casi”, con un riferimento a test che, ammesso siano mai stati condotti, si sono limitati alla compilazione di un questionario da parte di alcuni dipendenti e una percentuale insensatamente precisa per comunicare autorevolezza. Poi, certo, il metodo scientifico nel corso dei secoli è stato codificato, seguendo alcuni principi tutto sommato ben definiti, cosa che non si può dire per l’attivismo.
Tuttavia, in entrambi i casi – le pseudoscienze e l’attivismo di bandiera – c’è il rischio di banalizzare un’attività importante svuotandola di significato: leggendo di test clinici sulla bianchezza dei denti e vedendo bandiere arcobaleno fuori dalle banche, è normale che una persona diventi scettica di fronte a ben più seri test sull’efficacia di farmaci o a serie iniziative sociali. D’altra parte, volendo vedere il bicchiere mezzo pieno, l’esistenza di queste imizazioni mostra il prestigio sociale di cui godono le pratiche originali.
Cosa dobbiamo pensare di una scrofa che, invece di diventare prosciutti e salami, si fa pisolini sul divano di casa e indossa buffi copricapi? Credo ci siano pochi dubbi sul fatto che le sia andata bene,5 ma questo non toglie alcune perplessità sulla umanizzazione forzata di un animale che, per quanto domesticato, rimane irriducibilmente “non umano”.
Sul Tascabile, Alessia Colaianni approfondisce il tema in un articolo dal titolo perfetto: “Carini e coccolosi”. Il punto è che la “carineria” (traduzione imperfetta dell’inglese cuteness) è forse utile per avvicinarci agli animali grazie a emozioni positive, ma rischia di farci trascurare esseri viventi che carini e coccolosi non lo possono proprio essere (pensiamo agli invertebrati ma anche a piante, alghe e batteri) e soprattutto a non rispettare la “alterità” di animali il cui valore non si misura nella somiglianza all’umanità.
In pochissime parole
“Perché l’acqua ghiaccia?” è una di quelle domande apparentemente cretine che riserva una risposta piena di sorprese. Perché no, non è solo questione di freddo.
Avremo imparato qualcosa dalla pandemia di Covid-19? Non so, intanto segnalo un “punto della situazione” sull’influenza aviaria che potrebbe diventare la seconda pandemia – tipo la barzelletta del viaggiatore del tempo che, ritrovatosi in una trincea, interroga un soldato per capire in che epoca è finito. “Che guerra è questa?” “La Guerra mondiale” “La prima o la seconda?” “Merda”.
Sul Post, un interessante articolo su pensiero e linguaggio, tentando qualche risposta all’impegnativa domanda “si può pensare senza linguaggio?”.
Le nuove tecniche di evoluzione assistita non sono state sufficenti a superare i pregiudizi verso gli Ogm – a farne le spese, delle piantine di riso resistenti al brusone distrutte (per fortuna parzialmente) da dei vandali. Ne scrive, facendo il punto della situazione Eddo Rugini su Scienza in rete.
Una mia intervista sulla filosofia del tempo.
In realtà il film è diretto da Kevin Reynolds; Costner è stato uno dei produttori.
Non ricordo quanto il film si soffermi sulla crisi ecologica e sinceramente non ho voglia di rivederlo per togliermi il dubbio.
Versione accessibile: archive.is/c7QyW.
Versione accessibile: archive.is/X94mq.
E lo dice, forse con un po’ di ipocrisia, un onnivoro che apprezza la carne di maiale.