Ciao,
sono Ivo Silvestro e questa è la 94ª edizione della mia newsletter settimanale di segnalazioni e riflessioni.
Oggi parliamo di disinformazione sui vaccini Made in USA, di quel che si pensa della lotta alla crisi climatica e della camera 237 dell’Overlook Hotel.
Ma prima una foto: bandiere arcobaleno davanti a una sede della banca UBS che, non so, magari farà davvero qualcosa per i diritti delle persone LGBTQ+, ma sinceramente mi pare un indiscutibile caso di “Rainbow washing” che mi rende tutt’altro che ben disposto verso la banca.
Quando il complotto sui vaccini non è una fantasia
Da alcuni anni, per riferirmi alla strampalate teorie tipo che gli avversari di Trump sono di vampiri pedofili1, utilizzo il termine “fantasie di complotto”. È una parola d’autore, o almeno io l’ho scoperta grazie a Wu Ming 1 che ho avuto il piacere di intervistare qualche anno fa.
Perché i complotti esistono e l’etichetta di “complottista” rischia di attaccarsi sia a chi propone surreali teorie – le fantasia di complotto, insomma – sia a chi denuncia complotti verosimili portando prove, per quanto indiziarie. Insomma è la differenza che corre tra affermare che nessun aereo colpì le Torri gemelle l’11 settembre 2001 e sostenere che il governo statunitense ha falsificato le prove della presenza di armi di distruzione di massa in Iraq.
Questa distinzione è importante perché le fantasie di complotto rischiano di far pensare che tutte le teorie e ipotesi di complotto siano da liquidare senza prenderle in considerazione – sottraendo dalle critiche legittime i protagonisti di queste fantasie. Sintetizzando quanto affermato sempre da Wu Ming 1, “vorrei criticare quanto fatto da Hillary Clinton in politica estera, e invece di mi ritrovo a difenderla dall’accusa di scuoiare bambini”.
Eccomi quindi a dare spazio, nei limiti di questa newsletter, a un vero complotto sui vaccini: una vergognosa campagna di disinformazione che il governo statunitense ha condotto nelle Filippine.
I fatti li racconta l’agenzia Reuters in un lungo articolo che merita una lettura integrale.
Siamo alla fine del 2020 e, con la parziale eccezione di quello di AstraZeneca, i vaccini “occidentali” restano nei Paesi occidentali: non si è riusciti a organizzare una distribuzione equa e globale dei vaccini contro il Covid e ogni Paese si accaparra le dosi che può – così c’è chi ha dosi sufficienti a vaccinare l’intera popolazione una mezza dozzina di volte, e chi non riesce a immunizzare neanche il personale sanitario.
La Cina si comporta diversamente e stipula accordi per distribuire il proprio vaccino, il Sinovac, in vari Paesi asiatici, insieme ad altri aiuti. Non certo per altruismo: come dicono quelli fighi, è una strategia geopolitica, per avvicinare Paesi come le Filippine alla Cina e allontanarli dagli Stati Uniti.
Qual è la risposta di Trump? Me lo immagino nello Studio Ovale con due fogli davanti. Il primo ordina l’invio di vaccini prodotti negli Stati Uniti nelle Filippine; il secondo di contrastare l’iniziativa cinese con una campagna di disinformazione. Trump prende il primo foglio, lo accartoccia e lo butta nel camino,2 dando il via all’operazione clandestina adesso scoperta da Reuters.
L’obiettivo di questa campagna, condotta sui social media, era diffondere dubbi sulla sicurezza e sull’efficacia dei vaccini e di altri aiuti forniti dalla Cina, dalle mascherine ai test. Di fatto una campagna no-vax che, per quanto indirizzata espressamente sul Sinovac cinese, ha certamente alimentato la diffidenza verso i vaccini in generale.
Non credo sia il caso di sottolineare quanto una simile strategia sia miope e pericolosa. Mi limito a evidenziare due punti dell’articolo di Reuters. Il primo è che Biden, una volta arrivato alla presidenza, ci ha messo un po’ a interrompere questa campagna – immagino l’elenco di cose da sistemare fosse molto lungo, ma la cosa mi inquieta comunque un po’.
Il secondo punto è che questa campagna di disinformazione non è passata inosservata e anzi, Facebook ha subito beccato gli account falsi e ne ha chiesto conto al Pentagono. La risposta dei militari, stando a quanto riporta Reuters, è stata “non rompete le scatole che è un’operazione antiterrorismo, ma se proprio insistete giurin giuretta non facciamo più disinformazione sul Covid”.
In poche parole
Stando a un rapporto del Programma delle Nazioni Unite per lo sviluppo, la maggior parte delle persone al mondo ritiene che il proprio governo non faccia abbastanza per contrastare il cambiamento climatico. Ne riferisce in dettaglio Il Post e mi sono anche leggiucchiato le circa 180 pagine del rapporto.
Quello che mi chiedo è come mai, appena di parla di iniziative concrete, le voci contrarie si impongono? Penso sia una combinazione di fattori, tra cui certamente la disinformazione ma anche il fatto, di per sé banale, che puoi considerare una cosa importante ma meno urgente di altri temi come l’economia.
Mi ha comunque stupito leggere che quasi il 70% della popolazione mondiale (l’indagine è stata condotta in 77 Paesi diversi) abbia dichiarato che il cambiamento climatico abbia già influito su alcune decisioni importanti, come dove vivere, dove lavorare o cosa comprare. Guardando il grafico a pagina 35 del rapporto, si vede che a guidare questa classifica (con percentuali superiori all’80%) ci sono Paesi come Kenya, Afghanistan o il Messico, mentre i Paesi europei stanno in fondo alla classifica. Giusto per ricordarci la storia che il contrasto del surriscaldamento globale è un capriccio da Paesi ricchi.
Per gli amanti di Stanley Kubrick, c’è un bellissimo sfondo della scrivania (o dello smartphone) del tappeto della camera 237 dell’Overlook Hotel di Shining. Non sto a spiegare cosa accade nella camera 237, ma nel romanzo di Stephen King la camera in questione era la 217: i proprietari del Timberline Lodge, l’albergo usato da Kubrick per gli esterni e tutt’ora attivo, hanno chiesto di usare un numero inesistente per timore di ritrovarsi con una camera inutilizzabile.
Qualche sera fa ho visto State of Play3 di Kevin Macdonald con Russell Crowe, Ben Affleck, Rachel McAdams e uno stuolo di altri grandi nomi, pure tra i ruoli minori (vedi la particina riservata alla bravissima Viola Davis).
Al solito, mi incuriosiscono alcuni particolari: Crowe e McAdams sono due giornalisti del quotidiano Washington Globe che si ritrovano a indagare su un grosso scandalo – scontrandosi anche con la nuova linea editoriale del Globe, da poco acquisito da un gruppo editoriale. Pensavo fosse un riferimento al Washington Post divenuto proprietà di Jeff Bezos, quello di Amazon, ma mi sbagliavo: il film è del 2009, la famiglia Graham ha ceduto il Post a Bezos nel 2013. Se qui State of Play ha, almeno apparentemente, anticipato i tempi, si è decisamente sbagliato su un altro punto: vediamo infatti la rivalità tra Crowe, “giornalista di carta” e come tale appartenente a un mondo in declino, e McAdams che invece è “giornalista online” e quindi rappresenta il futuro. Solo che McAdams si occupa “dei blog del Globe”: nel 2024 la carta stampata non se la cava benissimo ma resiste ed è ancora rilevante, i blog sono di fatto scomparsi.
Devo fare una confessione: a me la storia della festa privata dell’Estetista cinica negli spazi della Biblioteca Braidense non scandalizza più di tanto. O meglio: un po’ mi indispone, l’idea di un luogo pubblico dato a privati, ma è una pratica in corso da anni e temo che il caso in questione (che oltretutto non ha limitato l’accesso alla biblioteca, visto che tutto si è svolto fuori dagli orari di apertura) abbia attirato le ire dei benpensanti soprattutto perché abbiamo a che fare con una influencer – che non gode delle mie simpatie, ma davvero: perché la sua presenza è uno scandalo mentre l’annuale festa al Metropolitan Museum of Art di New York strappa al più qualche sorriso per i vestiti improponibili?
Non so perché, ma mi è tornato in mente uno degli slogan più belli sentiti durante la pandemia: “No-one is safe until everyone is safe”, nessuno è al sicuro finché tutti non sono al sicuro. La prima volta l’avevo sentita da Tedros Adhanom Ghebreyesus, il direttore generale dell’OMS, riferendosi alla distribuzione globale di vaccini.
Non amo particolarmente gli slogan, ma questo continua a piacermi non solo per come sintetizza l’importanza della dimensione sociale, ma anche per come invita le persone a ragionare su cosa sia davvero la sicurezza.
In pochissime parole
Massimo Gramellini ha scritto una fesseria – o, meglio, si è fatto beccare a scrivere una fesseria.
La cancel culture non esiste ma quel che esiste è peggio, un lungo articolo di Erik Boni che vale la pena leggere con calma.
Questa popolazione amazzonica non è diventata dipendente dal porno.
Due cose su Paperino: la prima e la seconda.
È una esagerazione, ma neanche tanto.
Ci sarà un camino nello Studio Ovale?
Il film lo si trova su Netflix.