Ciao!
Nella precedente newsletter avevo scritto di scienza e giustizia sociale e la rivista Nature ha dedicato un numero speciale al razzismo insito nella ricerca scientifica; ne scrive Andrea Capocci sul Manifesto. Oggi invece parliamo di metodo scientifico (anche se non quello di Galileo), di data journalism, di prigioni e di altre cose.
Ma prima una foto, scattata a Lugano negli scorsi giorni. Fa parte di una campagna di sensibilizzazione della città “contro la mancata raccolta dei bisognini dei cani” (perché non scrivere escrementi?), ma senza contesto quella scritta suona un po’ minacciosa (almeno a me, sarà la coda di paglia).
I limiti della scienza
È da quando ho ripreso ad aggiornare regolarmente il blog che mi arrovello sui limiti della scienza, nel senso di vedere cosa distingue la scienza da altre attività umane da quelle dignitose come letteratura e filosofia a quelle che potremmo anche lasciar perdere (come le pseudoscienze), oltre a capire quali conoscenze possiamo sperare di raggiungere con la scienza.
Solo che il tema è talmente vasto e complesso che ho solo appunti e allora inizio a metterne qui qualcuno, di questi appunti. Ad esempio: come possiamo rispondere scientificamente alla domanda se c’è vita dopo la morte? Scottecs ci presenta un possibile esperimento:
Una delle idee è che a certe domande è difficile rispondere con un esperimento: la vita dopo la morte è un caso estremo, ma anche gli effetti dello yoga sono un problema visto che non puoi fare un test in cieco, non esistendo un “finto yoga” che permetta di escludere l’effetto placebo.
Arriviamo così al metodo scientifico. Che cosa è il metodo scientifico? L’unica risposta sensata è: dipende. A livello generale possiamo parlare di formulare una ipotesi e verificarla, ma così son buoni tutti. Cosa fanno davvero scienziati e ricercatori? Beh, pubblicano articoli scientifico su riviste peer reviewed. Io scrivo l’articolo “Effetti di una dieta a base di aglio sulle relazioni sociali”, lo mando alla rivista Scienze sociali dell’alimentazione1 che lo fa leggere ad alcuni esperti del settore i quali possono dire che l’articolo è da scartare in quanto pessimo (e proverò a pubblicarlo su una rivista meno selettiva), da migliorare (e lo riscriverò finché non lo approveranno) o che si può pubblicare. Io non conosco l’identità dei revisori, ma loro conoscono la mia e – sorpresa! – le possibilità che un articolo venga accettato migliorano se il nome è quello di un premio Nobel e non di uno sfigato qualunque. E l’effetto è “astonishing”, secondo quanto scrive Nature.
La cosa si potrebbe risolvere con un sistema a doppio cieco, nel quale non solo gli autori non conoscono l’identità del revisore ma anche il contrario – il che potrebbe non essere semplice, soprattutto in settori molto specializzati dove ci si conosce tutti. E comunque non è l’unico problema della peer review e infatti c’è chi, all’interno della comunità scientifica, c’è chi propone alternative. E una è arrivata proprio adesso dalla rivista eLife che non farà più selezione ma pubblicherà tutto quello che riceverà con le note dei revisori. Il mio articolo “Effetti di una dieta a base di aglio sulle relazioni sociali” potrà quindi essere pubblicato su eLife, anche se magari accompagnato da un testo che dice che fa schifo e dovrei lasciar perdere la ricerca scientifica. Come nota su Facebook il giornalista scientifico Massimo Sandal, molto attento al tema:
In pratica la rivista non è più un contenitore di articoli scientifici, ma un contenitore di recensioni. Gli articoli esistono sui server di preprint. La rivista si occupa di trovare qualche pari che voglia dire la sua sull'articolo e di pubblicare le opinioni in merito. Gli autori potranno poi decidere se migliorare l'articolo, altre persone potranno aggiungere ulteriori review, e così via. Tutto alla luce del sole.
Massimo Sandal io consiglio di seguirlo anche su Twitter (e di leggere il suo libro La malinconia del mammut. Specie estinte e come riportarle in vita, anche se non c’entra con le riviste scientifiche).
Gli impliciti del greenwashing e del linguaggio d’odio
Nel Regno Unito l’autorità di vigilanza sulla pubblicità ha bacchettato la banca HSBC per alcuni manifesti, giudicati fuorvianti, sul suo impegno a favore del clima. Un caso di greenwashing2 ed è interessante che la questione, stando a quanto riporta la BBC, non riguardi quel che la banca ha affermato, ma quel che la banca ha fatto intendere: visto il dichiarato impegno ambientale, ci si aspetta che la banca non finanzi aziende inquinanti.
Quello che non si afferma esplicitamente ma si lascia intendere è un aspetto molto importante del linguaggio e c’è una disciplina interamente dedicata al tema, la pragmatica. Che grosso modo è questa cosa qui:
Gli impliciti e la pragmatica sono importanti anche per il linguaggio d’odio e la discriminazione. Ne ho parlato con la filosofa Claudia Bianchi in un’intervista pubblicata sul quotidiano laRegione. Sempre lì ho scritto due cose sul clima: una riguarda le piogge acide, l’altra uno spettacolo teatrale sul riscaldamento globale3 che dopo la prima a Lugano sarà al Festival della scienza di Genova.
Lorenzo Erroi ha invece scritto un interessante approfondimento sul sostegno elvetico che re Leopoldo II del Belgio ha trovato per la sanguinosa conquista del Congo.
Chiudiamo con Rikers Island
Le cose hanno un’anima? Personalmente dubito che ce l’abbiamo anche gli esseri umani, ma alla fine possiamo considerare “anima” come un’abbreviazione per “questa cosa è viva e importante”, senza particolare implicazioni metafisiche (a questa versione minimalista dell’anima avevo accennato nel 2006). In questo senso l’animismo non sarebbe più quel “grado zero del pensiero religioso tipico dei popoli primitivi” ma una visione del mondo che ci porta a guardare in maniera più equilibrata e rispettosa all’ambiente. Di questo revival dell’animismo (e di cosa dobbiamo davvero intendere con questo termine) ne scrive Justine Buck Quijada su The Conversation: ‘Animism’ recognizes how animals, places and plants have power over humans – and it’s finding renewed interest around the world.
Segnalo due articoli del blog: il primo è una breve riflessione sul cosiddetto lungo-terminismo, l’idea che le nostre scelte etiche dovrebbero guardare, appunto, a lungo termine. Ma molto lungo, tipo preoccuparci dei miliardi di miliardi di miliardi di miliardi di persone che vivranno in futuro lasciando perdere chi oggi muore di fame.
Il secondo è un esercizio di data journalism: per un corso che sto seguendo ho dovuto fare qualcosa con grafici e numeri e mi sono divertito ad analizzare la durata e l’orario di pubblicazione di Morning, il podcast del vicedirettore del Post Francesco Costa.
Infine, Rikers Island, il carcere di New York al quale Rete Due ha dedicato un interessante approfondimento sentendo la giornalista Jan Ranson e Darren Mack, ex detenuto oggi attivista e leader di Freedom Agenda.
Questa edizione della newsletter finisce qui; se vi è piaciuta potete consigliarla o condividerla con altre persone…
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Ci leggiamo tra sette giorni.
Ho inventato il nome della rivista, ma non escludo che esista davvero e anzi potrebbe essere una importante e seria rivista.
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