Ciao,
sono Ivo Silvestro e questa è la 79ª edizione della mia newsletter settimanale di segnalazioni e riflessioni.
Oggi parliamo di microaggressioni, di sensori bestiali, di cibi ultraprocessati e di batterie delle auto elettriche.
Ma prima una foto: neve, nuvole, cielo azzurro tutto in un’immagine.
La dittatura woke
Un articolo di Federico Rampini ha suscitato un certo dibattito – poi in realtà siamo al livello di quelle che Paul Feyerabend, in una lettera all’amico Imre Lakatos, aveva paragonato alle flatulenze: al momento fanno tanta puzza ma poi nessuno se ne ricorda.1
Rampini ha riportato la testimonianza di una donna di 42 anni originaria del Veneto ma da diversi anni a New York. La donna si è iscritta a un master alla Columbia University, ritrovandosi in quella che nel titolo viene definita “dittatura woke” (espressione che mi pare lei non utilizzi mai nell’articolo):
Passo il mio tempo a camminare sulle uova, a dribblare le regole della cultura woke , qualsiasi cosa dica o faccia può essere condannata come una micro-offesa rivolta contro afroamericani o latinos.
L’articolo è un elenco di episodi di vario genere, tutti incentrati sull’assurdità del politicamente corretto e dell’attenzione verso le ingiustizie razziali e sociali.2 Alcuni di questi episodi suonano assurdi o forzati, come il non poter parlare di “campo di studi” perché l’espressione potrebbe evocare i campi dove gli schiavi erano obbligati a lavorare,3 ma altri mi sembrano sensati soprattutto tenendo conto che il master che sta seguendo è per diventare assistente sociale ed è quindi normale che ci sia particolare attenzione alle discriminazioni sociali. Afferma ad esempio di essere stata “messa sotto accusa da tre studenti” per aver espresso stupore di fronte a una adolescente “consapevole del trauma generazionale”. I tre studenti saranno anche intervenuti bruscamente, ma l’osservazione “si vede il tuo privilegio, se tu fossi nera sapresti già da bambina cos’è il tuo trauma generazionale” mi sembra pertinente e anzi molto utile per meglio comprendere le persone che verosimilmente incontrerà nel proprio lavoro.
Ma, come detto, altri episodi suonano paradossali e, anche da persona sensibile al tema, fatico a comprenderli. C’è ad esempio la questione della domanda “da dove vieni?” che è considerata una microaggressione. A ragione, pensando a una situazione in cui venga rivolta esclusivamente ad alcune persone, tipicamente quelle con tratti somatici non maggioritari: chiedere “da dove vieni?” solo a chi ad esempio ha la pelle scura implica che quella persona non può essere nata o cresciuta qui e deve in qualche maniera giustificare la sua presenza. Penso che mi girerebbero le scatole se questa domanda venisse rivolta in continuazione solo a me.
Ma in un contesto accademico, solitamente caratterizzato da una elevata mobilità, mi sembra una domanda legittima. Forse mi sbaglio, ma considerarla in ogni situazione una micro-aggressione mi sembra una burocratizzazione insensata, una situazione dominata non dal desiderio di risolvere un problema, ma di poter dimostrare di aver fatto qualcosa per affrontarlo, anche se quel qualcosa è assolutamente inutile. Non ha senso affrontare un fenomeno complesso e sfumato come le ingiustizie razziali e sociali con un insieme di regole da applicare meccanicamente.
C’è un’ultima cosa sull’articolo di Rampini che credo sia importante dire. In quel lungo testo c’è solo il racconto della donna: non vengono fornite informazioni di contesto – sulla società statunitense, sulle norme di “Diversity, equity, and inclusion” o sul master per diventare assistenti sociali (ammesso che sia una traduzione adeguata di quella che credo essere la School of Social Work della Columbia) –, non vengono sentite altre persone, neanche quelle che stando all’intervistata avrebbero espresso dubbi sulle prassi di inclusione, non c’è neanche una presa di posizione dell’università o la dichiarazione di qualche responsabile. Questo, al di là di come la si pensi sulla cultura, o dittatura, woke, è grave. Ma il fatto che, anche tra le persone critiche dell’articolo di Rampini, in pochi l’abbiano notato mi preoccupa molto.
In poche parole
I posti dove si installano le stazioni meteorologiche sono al centro di una piccola fantasia del complotto: le stazioni sarebbero installate in luoghi appositamente scelti per falsare i dati e farci credere che esista un cambiamento climatico in realtà inesistente. Non so quanto valga la pena rispondere a queste fantasie di complotto, che oltretutto ritornano ciclicamente, ma dove vengono installati i sensori è un tema molto interessante. Perché magari l’ideale, per un modello climatico, è raccogliere dati a 7000 metri d’altezza o nelle profondità oceaniche o ancora in mezzo a zone disabitate – ma come lo installo lì un sensore e come recupero i dati?
Facile: grazie agli animali selvatici e ai sensori che possiamo attaccar loro addosso, una volta sicuri che non interferiscano con le loro attività e si dimostrino affidabili anche in situazioni particolari come una foca che si immerge per cacciare. Ne parla Yale Climate Connections in un articolo dal titolo perfetto: All this climate data is wild (che proverei a tradurre con “Questi dati climatici sono bestiali”).
Non c’è una vera ragione per imporre la modalità aereo in volo, scrive Il Post: il timore di possibili interferenze era forse giustificato all’inizio, adesso non più. E quindi? Nell’articolo si fanno un po’ di ipotesi – tra cui quello che col telefono inattivo si riduce il rischio di rompere le scatole agli altri – alle quali umilmente aggiungo le mie. Hai chiamato una funzione “modalità aereo”, con quel nome come pretendi di non utilizzarla in aereo?
E poi, si sa, la ragione ultima per cui si fa qualcosa è sempre una delle seguenti: si è sempre fatto così; me l’hanno ordinato; si sono perse le chiavi.
Ci sono sempre più prove che gli alimenti ultraprocessati facciano male alla salute. Come conclude uno studio (una “umbrella review”, diciamo uno studio che studia altri studi4) pubblicato sul British Medical Journal: “Greater exposure to ultra-processed food was associated with a higher risk of adverse health outcomes, especially cardiometabolic, common mental disorder, and mortality outcomes”, insomma più cibi ultraprocessati ci sono in giro più abbiamo malattie cardiometaboliche, disturbi mentali e si muore prima (per contro ci sono poche prove di un legame con asma e certi tipi di tumore). È una correlazione, per cui magari non sono i cibi ultraprocessati a peggiorare la salute ma altri fattori che portano sia a consumare questi cibi sia ai problemi di salute, ma è improbabile.
Ok, ora lo sappiamo. O meglio lo sappiamo un po’ meglio di prima. Tuttavia, come nota Pete Wilde su The Conversation, non solo ignoriamo i meccanismi che portano dal cibo ultraprocessato ai problemi di salute – e comprenderli potrebbe aiutarci a capire come meglio intervenire –, ma non tutto il cibo ultraprocessato è uguale. Questa categoria si basa semplicemente su quanto il cibo venga trasformato a livello industriale e include anche il pane integrale e lo yogurt alla frutta, mentre lascia fuori la carne rossa i cui effetti sulla salute sono ben noti. La mia opinione personale, che vale quel che vale cioè poco: quella dei cibi ultraprocessati non è una categoria da prendere troppo sul serio e ci ragionerei bene prima di basarci iniziative per una corretta alimentazione.
Non sono un fan delle auto elettriche – ma semplicemente perché non penso che siano la soluzione alla mobilità sostenibile che non penso possa basarsi su degli affari enormi e pesanti (molto più delle persone che di solito trasportano) che passano la maggior parte del tempo fermi in garage o a lato della strada. Una interessante intervista pubblicata da Scienzainrete affronta, insieme ad altri temi dalle materie prime delle batterie al rischio di incendi, questo argomento:
Per sfruttare a pieno il potenziale delle auto elettriche occorre quindi cambiare il modello di mobilità. «L’attuale modello di mobilità si base su moltissime auto private, utilizzate pochissimo, mentre l’auto elettrica, per quanto detto prima, si presta molto bene a un utilizzo intensivo compatibile con il car sharing. L’elettrificazione di massa delle auto ha senso solo se si va verso un modello di mobilità basato largamente sul car sharing. Per un pieno sviluppo del car sharing occorre lo sviluppo dei veicoli a guida autonoma», spiega Savaresi.
Sembra una barzelletta, ma in Liguria le pari opportunità passano da “tre gusti di gelato dedicati alla Giornata della Donna”. La notizia sul sito del comune di Genova è involontariamente esilarante – a me non stupisce tanto l’iniziativa di Confartigianato (che potrei anche trovare simpatica, ma forse ho un bias da amante del gelato), ma la partecipazione entusiasta dell’assessorato alle Pari Opportunità di Regione Liguria.
In pochissime parole
I modi in cui abbiamo disegnato i Neanderthal dicono più cose di noi che di loro: sarei molto stupito del contrario, ma questo articolo del Post è ricco di dettagli interessanti.
Il New York Times ha un bell’approfondimento, di Maia Szalavitz, sul cosiddetto “moral hazard”, la teoria secondo cui non ha senso ridurre i rischi (imponendo cinture di sicurezza, garanzie sui depositi bancari o curando le overdose di droghe) perché poi le persone compensano la riduzione del rischio con atteggiamenti spericolati. Spoiler: è una fesseria.
Ipervaccinazione: una parola interessante che però è anche un po’ ambigua (a proposito di questa notizia qui).
L’Antropocene non è (ancora) una nuova era geologica.
Se vi state chiedendo a cosa servono le biblioteche ora che tutto è online, ecco: pare che milioni di articoli scientifici siano a rischio perché non archiviati correttamente.
In una lettera dell’agosto 1972 scrisse: “Ci sono centinaia di conferenze in corso, e passano come una scoreggia. Fanno un brutto odore per un paio di minuti, poi nessuno se ne ricorda più”. (Da Imre Lakatos, Paul K. Feyerabend, Sull’orlo della scienza, Raffaello Cortina, 1995, pagina 285)
Ecco una sintetica definizione di “cultura woke” che nell’articolo di Rampini veniva data un po’ per scontata.
Ho cercato riscontri a questa faccenda del “field of specialization”. Un paio di università – tra cui la University of Southern California – avrebbero deciso di evitare il termine “field” per questi motivi, ma in espressioni analoghe al “lavoro sul campo” (field work), non per quanto riguarda i campi di specializzazione.
Che al mercato mio padre comprò.