Ciao,
sono Ivo Silvestro e questa è la 129ª edizione della mia newsletter settimanale di segnalazioni – che trovate anche nel numero extra del lunedì – e riflessioni.
Oggi parlo di rabbia e ascolto, di mappe e di schiavitù.
Ma prima una foto: mi trovo in montagna per qualche giorno – il che spiega, oltre al titolo, anche la brevità di questa edizione della newsletter.
La rabbia e l’ascolto
Ho avuto il piacere di seguire una conferenza di Judith Butler. Scherzando, l’ho definita “la grande sacerdotessa dell’ideologia gender”: una fesseria, ovviamente, visto che parliamo di una solida e argomentata teoria filosofica e non di un movimento religioso che ha bisogno di sacerdoti o sacerdotesse; ma la definizione ha almeno il merito di descrivere l’importanza che ha avuto Judith Butler nel sintetizzare e dare forma organica a riflessioni precedenti, diventando un punto di riferimento per pensatori e pensatrici successivi.
Ora, credo e temo che ci siano pochi concetti travisati come quello di gender o genere. Eppure il punto di partenza di questa idea mi è sempre sembrato incredibilmente semplice e non controverso: il significato che diamo all’essere maschi o femmine è solo in parte una questione biologica. Poi si apre tutto il discorso di quanto sia biologico e quanto sia culturale, e quanto il biologico influenzi il culturale e viceversa, e qui capisco che alcune posizioni (tra cui quelle di Butler) possano essere disorientanti.
Tuttavia non voglio avventurarmi in un riassunto della teoria di genere o del pensiero di Judith Butler; questa premessa mi serve semplicemente per contestualizzare un paio di affermazioni che la filosofa ha fatto durante la sua conferenza.
Butler era tranquilla e, con una cortesia che finora avevo visto solo da parte di Daniel Dennett, si è sforzata di parlare più lentamente e nella maniera più chiara possibile, sapendo di rivolgersi a persone non madrelingua inglese. Ma era arrabbiata, e comprensibilmente: la sua filosofia – non solo per quanto riguarda il gender – è intesa come una liberazione da schemi di potere che in questo momento vengono riaffermati ed esacerbati in varie parti del mondo. Era arrabbiata, ma non urlava. Perché urlare impedisce di pensare e lei vuole continuare a pensare.
Credo che questo sia un punto molto importante. Certo, se si va in piazza a manifestare bisogna urlare, o quantomeno cantare a voce alta slogan che di solito non hanno grande profondità argomentativa. Ma se le manifestazioni di protesta non sono il luogo per sofisticate riflessioni, ci sono altri spazi nei quali è possibile pensare. E non dobbiamo perderli. Pensare – e questo è un altro punto importante – non solo per criticare le posizioni altrui, ma anche per immaginare delle alternative, come una società nella quale ogni persona ha pari valore.
Dopo la conferenza, c’è stato il momento delle domande e una persona tra il pubblico ha chiesto se c’è modo di difendere i diritti LGBTQ evitando il “contraccolpo” con cui oggi vengono accolti certi discorsi. La risposta di Judith Butler è stata che no, non c’è modo: qualsiasi cosa dirai, in qualsiasi modo la dirai, verrà strumentalizzata. A prima vista mi è sembrata una risposta pessimista per non dire deprimente; però questa constatazione non deve portare al silenzio o ad accettare una versione annacquata dei propri valori nella speranza che non suscitino polemiche. Al contrario: bisogna continuare a esprimere le proprie idee nel miglior modo possibile, con la consapevolezza che non c’è una strategia a prova di manipolazione.
Questo non significa – almeno per me, ma credo anche per Judith Butler – smettere di ascoltare le altre persone, capire cosa trovano di interessante in una visione così lontana dalla nostra. È anzi un esercizio che, nelle rare occasioni in cui si riesce a instaurare un dialogo, è utile. E qui riporto la sorprendente esperienza di Katelyn Jetelina, epidemiologa che ha incontrato alcuni esponenti del movimento MAHA, Make America Healthy Again, perlopiù abbracciando posizioni pseudoscientifiche. Non per ignoranza, stupidità o cattiveria, ma perché deluse o disorientate dal sistema sanitario. E certo con un incontro non si ricostruisce una fiducia compromessa da anni. Ma è un inizio.
In poche parole
La mia pignoleria mi impone di denunciare la falsità del titolo di questa newsletter: mi trovo in montagna, non lontano dal passo del Lucomagno, ma al di sotto dei 1500 metri di quota che convenzionalmente definiscono “l’alta montagna”.
Non è solo una questione di linee immaginarie: anche una persona con scarse competenze botaniche come me si rende conto di essere circondata da latifoglie e non da conifere. Però rimane una convenzione, un modo in cui suddividiamo la natura per comodità. Non “un modo come un altro”, perché non tutte le categorizzazioni sono ugualmente sensate o comode, ma comunque “un modo tra altri possibili”.
A proposito di categorizzazioni e semplificazioni del reale: come deve essere fatta una buona mappa di una città?
Uno dei miei passaggi preferiti del Piccolo principe di Saint-Exupéry è il dialogo tra il Piccolo principe e il geografo, con la sconcertante scoperta che il fiore tanto amato dal protagonista non interessa al geografo in quanto effimero. Ovviamente ha ragione il geografo: non ha senso segnare i fiori nelle mappe geografiche; ma ha anche ragione il Piccolo principe, i fiori sono belli. E non è chiaro cosa serve davvero segnare, come mostra il caso delle mappe (che forse sarebbe meglio chiamare “schemi”) delle metropolitane di varie città, alle quali il Post ha dedicato un bell’articolo partendo dal caso di New York.
A cosa pensate se dico “schiavitù”? Penso che a molti vengano in mente delle catene e, più in generale, situazioni lontane nel tempo o nello spazio, come gli schiavi della Roma antica o i campi di cotono nel sud degli Stati Uniti. Eppure la schiavitù è molto più vicina e non prevede l’uso di catene o in generale di costrizione fisica: bastano la situazione di estremo bisogno, la mancanza di risorse e di alternative lavorative, la scarsa conoscenza della lingua e dei propri diritti. È quanto ha confermato la Cassazione italiana in una recente sentenza che mi pare molto importante. Anche se purtroppo assolve i proprietari dei campi nei quali quelle persone, quegli schiavi, lavoravano, condannando solo i cosiddetti “caporali” che facevano da intermediari.
Dobbiamo aggiornare il nostro immaginario sulla schiavitù.
In pochissime parole
I nuovi mercanti di dubbi che difendono i PFAS, breve promemoria di come agiscono i gruppi industriali.
Metapolemiche sui metalupi, un punto di vista un po’ meno indignato del mio.