Ciao,
sono Ivo Silvestro e questa è la 66ª edizione della mia newsletter settimanale di segnalazioni e riflessioni. Oggi parliamo di chi si identifica con le fake news (e non solo), di intelligenze artificiali aperte e chiuse e del perché piace così tanto la lettera “q”.
Ma prima una foto: messaggi anarchicheggianti sulla segnaletica orizzontale non lontano da casa.
Tatuarsi le fake news
Ho avuto il piacere di intervistare Tommaso Piazza,1 professore di filosofia del linguaggio all’Università di Pavia, in vista di una presentazione del libro, scritto con Michel Croce, Che cosa sono le fake news (Carocci 2022).
L’idea alla base del lavoro di Piazza e Croce è che disinformazione, propaganda eccetera siano sempre esistite, ma il fenomeno delle fake news è diverso e per questo merita un nome a parte.
Che cosa c’è di diverso? Parte della risposta sta nel contesto mediatico: le fake news (semplificando una analisi più raffinata) sono pensate per essere condivise online. Ma a essere particolari sono anche le intenzioni: le fake news non necessariamente nascono per ingannare, cioè per far credere il falso. L’intenzione può essere semplicemente quella di intrattenere i fruitori, eventualmente guadagnando grazie alla pubblicità. E soprattutto le fake news potrebbero anche non avere l’obiettivo di farci credere il falso, ma quello più subdolo di non farci credere il vero. Come “agenti epistemici” (che è un modo figo per definire le persone interessate alla conoscenza) siamo infatti interessati sia ad aumentare il più possibile le credenze vere, sia a diminuire quelle false; perché con uno solo dei due scopi è facile: basta credere a tutto, e si è sicuri di credere tutte le cose vere, oppure non credere a nulla, e si è sicuri di non avere credenze false.
La parte più interessante del lavoro di Piazza e Croce, secondo me, è tuttavia quella sui “consumatori di fake news”. Chi sono questi consumatori? Da una parte ci sono le persone mosse dal desiderio di conoscere cose vere e che purtroppo si imbattono in contenuti falsi – o comunque creati da chi non è particolarmente interessato alla verità di quei contenuti. In questo caso allenare lo spirito critico può essere un metodo per ridurre gli effetti delle fake news; ammesso di capire che cosa significhi “allenare lo spirito critico”, ma questo è un altro discorso.
Ma c’è anche un altro tipo di consumatore di fake news, il cui interesse principale non è conoscere cose vere (o non conoscere cose false). Anche perché in molti casi questa conoscenza non ha conseguenze dirette e immediate – un esempio un po’ grezzo, quando vado a fare la spesa poco cambia che la Terra sia piatta, rotonda o a forma di ciambella.2 Consumare fake news è semplicemente un modo per manifestare l’appartenenza a un determinato gruppo sociale. È una questione di identità e di contrasti tra gruppi sociali. E in questo caso lo spirito critico fa ben poco perché quello che conta non è il contenuto delle fake news – al quale forse non ci si crede del tutto: basta affermarle pubblicamente o almeno rifiutare la tesi contraria maggioritaria –, ma il fatto che queste siano diventate credenze che definiscono il gruppo sociale nel quale mi riconosco. Anzi: secondo Piazza, credenze altamente improbabili – come il già citato terrapiattismo – potrebbero avere lo scopo di rendere particolarmente forti i legami interni al gruppo, rendendo difficile l’abbandono dei membri. Un po’ come i tatuaggi a cui si sottopongono i membri di certe gang: una volta che te li sei fatti, è difficile tornare indietro.
Ora, questa ricostruzione mi convince, soprattutto se si tiene conto che i due profili sono delle idealizzazioni e che nella realtà troviamo un misto dei due modelli. Il punto è che non mi pare riguardare solo le fake news e le fantasie di complotto. Ogni credenza può avere una funzione identitaria, sia le fake news sia le smentite delle fake news. E più questa funzione identitaria è forte, meno importanti diventano le ragioni per credervi o per dubitarvi, perché quello che conta sono i gruppi ai quali si appartiene.
Questa lettura, tra l’altro, potrebbe spiegare perché, a guardare i risultati dei sondaggi di opinione, c’è un consenso verso temi come il matrimonio egualitario o l’eutanasia del quale non si trova traccia nelle elezioni. Non voti per il partito che fa le proposte migliori per i problemi che reputi più importanti, ma per quello nel quale ti identifichi.
Se è così, avrebbe senso sfruttare questo meccanismo di credenze identitarie per spingere credenze vere? Insomma puntare a che le persone affermino che la terra è rotonda, che i vaccini sono efficaci, che siamo andati sulla Luna eccetera non perché hanno buone ragioni per farlo – ragioni dirette o indirette, come la fiducia nelle istituzioni –, ma perché così facendo fanno parte di un club.
Solo che a me piacciono, le ragioni per credere o dubitare di qualcosa; per cui, alla fine di questa storia, credo che tra i propositi per il nuovo anno non metterò quello di credere meno alle fake news – che è scontato e poco utile –, ma quello di guardare con sospetto alle credenze identitarie.
Perché la Q?
Per me Q è sempre stato quel tizio con i capelli bianchi che fornisce a 007 i gadget tecnologici – e le auto, ma non ho mai avuto una grande passione per le auto per cui le dimentico subito, al contrario di orologi laser e valigette esplosive. L’attore Desmond Llewelyn è morto nel 1999 – dopo aver servito tre o quattro interpreti di James Bond –, sostituito con dignità dall’ex Monty Python John Cleese e nei film più recenti dal simpatico ma un po’ insipido Ben Whishaw.
Nel frattempo è arrivato QAnon, una fantasia di complotto al contempo surreale e divertente – e dalle origini misteriose.3 La “Q”, in questo caso è quella di un particolare tipo di autorizzazione del Dipartimento dell’energia statunitense per accedere a documenti riservati.
Adesso è arrivato Q*, ma forse dovrei dire che tra un po’ arriverà Q*: visto parliamo di un progetto supermegaipersegreto di OpenAI; l’azienda di ChatGPT, di un qualcosa di incredibilmente potente e quindi anche pericoloso. Un riassunto di quel (poco) che si sa lo si trova su Wired.
Io di intelligenza artificiale ne so poco e in passato ho dimostrato, quanto a capacità di prevedere gli sviluppi tecnologici, quello che in parapsicologia chiamano “psi negativo” – giusto per fare un esempio, ero convinto che mai e poi mai avremmo avuto i moderni smartphone.
Insomma, potrei sbagliarmi di grosso ma credo che i modelli linguistici di grandi dimensioni – insomma, le intelligenze artificiali che scrivono cose – abbiamo già raggiunto la maturità tecnologica che vediamo in altri settori, dove vediamo continui miglioramenti che tuttavia non rivoluzionano il prodotto. Insomma, non ho grandi aspettative (e neanche grandi preoccupazioni) verso Q*.
O meglio, una preoccupazione l’ho: il fatto che sia tutto segreto (oltretutto da parte di una azienda che ha “open” nel nome). Per questo guardo con interesse a progetti come la Swiss AI Initiative che, essendo un progetto pubblico, sarà trasparente sia su come i suoi modelli linguistici vengono addestrati, sia sui risultati ottenuti.
Sul tema, segnalo la conferenza che terrà il 18 dicembre a Lugano Roberto Viola, Direttore Generale per le Reti di Comunicazione, i Contenuti e le Tecnologie della Commissione europea.
Futuro dell’intelligenza artificiale a parte: perché la lettera “Q” è così interessante?
In breve
Non ho ancora visto Napoleone di Ridley Scott – ma ho trovato interessante questa recensione-riflessione dello storico Pietro Montorfani: Larger than life: il mito di Napoleone nell’ultimo Ridley Scott
È morto Libero Sosio, e ho paura di controllare nella mia libreria quanti saggi ho tradotti da lui.
Un po’ di bioetica: è giusto allungare la vita ai cani con un farmaco?
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E infatti la Terra non è neanche una sfera, visto che è leggermene schiacciata ai poli, più altre deformazioni che non ha senso neanche ricordare.
È pieno di articoli su QAnon; qui mi limito a citare un articolo di Sofia Lincos e Giuseppe Stilo su Query, la rivistra del CICAP, e l’approfondimento di Francesco Grassi sulle origini del movimento (parte uno, due e tre).