Ciao,
sono Ivo Silvestro e questa è la 87ª edizione della mia newsletter settimanale di segnalazioni e riflessioni.
Oggi parliamo di social media per intelligenze artificiali, di proteste legittime, della cultura che (non ci salverà) e, per concludere in bellezza, di dolore.
Ma prima una foto che lascio così, senza spiegazioni.
Vedo la gente morta. Su Facebook
Con il declino di Twitter – che dovrei chiamare X, ma proprio faccio fatica e del resto non sono il solo –, sul quale ormai vado quasi esclusivamente per avere il polso sulle fantasie di complotto del momento, trascorro più tempo su Facebook.
Negli anni mi sono costruito una rete di contatti di buona qualità; non necessariamente una bolla che la pensa come me, ma che quantomeno condivide l’idea “prima argomentare e poi insultare”. Sugli altri social media non sono riuscito a ricreare una simile rete, non sono sicuro che lo sforzo per farlo sarebbe ripagato da contenuti e contatti interessanti e – sarà certamente una questione anagrafica – continuo a preferire i contenuti testuali a video e immagini.
Nelle ultime settimane ho tuttavia notato un peggioramento. L’algoritmo mi propone con sempre maggior tenacia contenuti che non so come altro definire se non “di merda”. Gruppi apertamente misogini, contenuti anti-woke che riprendono e commentano con entusiasmo le peggiori bufale sul tema, aumentando il rumore e riducendo la possibilità di dire cose sensate (anche critiche verso il politicamente corretto).
Solo in alcuni casi mi sono imbattuto in contenuti generati da intelligenze artificiali – a parte qualche immagine chiaramente “artificiale” e discussa come tale. Dopo aver letto un lungo e dettagliato articolo di 404media – Facebook’s AI Spam Isn’t the ‘Dead Internet’: It’s the Zombie Internet di Jason Koebler–, però, mi viene il dubbio che molti, o almeno alcuni, dei contenuti dei quali mi sono appena lamentato siano fatti tramite IA o comunque trovino diffusione grazie a commenti di bot non umani.
L’articolo parte dalla teoria che internet è, o sarà presto, morta.1 Non nel senso che ha esaurito quella carica utopica degli inizi, con tutti i discorsi sulla libera diffusione della conoscenza – quella cosa lì direi che è finita prima ancora di iniziare. Ma nel senso che le attività online sono per la maggior parte artificiali: contenuti generati da intelligenze artificiali (se non da algoritmi ancora più semplici che neanche meritano questo termine), selezionati e diffusi da intelligenze artificiali e consumati da intelligenze artificiali sia per questioni di monetizzazione (capita ad esempio su Spotify) sia per addestrare le intelligenze artificiali a produrre nuovi contenuti.
Koebler fa un passo oltre: se dobbiamo pensare allo scenario di un film, dobbiamo guardare agli horror e non alla fantascienza. Facebook è, come da titolo, “l’internet zombi”, con un miscuglio di bot, di esseri umani e di account che una volta erano esseri umani ma ora non lo sono più, tutti che interagiscono tra di loro con post, commenti, immagini.
E a Facebook va bene così: è spam generato da intelligenze artificiali, ma mantiene la piattaforma attiva per cui porta soldi. La responsabilità, tuttavia, direi che è anche degli esseri umani, me incluso, che restano su Facebook sopportando tutto questo o persino apprezzano contenuti surreali come “shrimp Jesus”:
In poche parole
Avrei voluto scrivere delle proteste propalestinesi nelle università statunitensi. Ma ho poche idee chiare, in proposito. Una di queste è che la repressione violenta da parte delle forze dell’ordine è giustificata solo in casi estremi, non con la facilità che, almeno da qualche migliaio di chilometri di distanza, vedo accadere in alcune università. Un’altra idea chiara è che purtroppo ci vuol poco, a passare dall’essere propalestinesi – cioè dal condannare un intervento militare sproporzioanto e inumano e chiedere al proprio governo un maggiore impegno – all’essere antisemiti e accusare indistintamente gli ebrei di ogni nefandezza.
Non ho chiaro, ma direi che non sono il solo, dove tracciare il confine tra libertà di espressione – che include anche manifestazioni e proteste –e violenza che può anche essere verbale.
Il direttore del Post Luca Sofri ha scritto un articolo che mi trova un po’ d’accordo e un po’ no. Il titolo è “Nasciamo Vannacci, è il dopo che conta” e mi trova d’accordo sulla prima parte, quella per cui “nasciamo Vannacci” o, meglio che gli esseri umani “nascono conservatori, geneticamente votati alla conservazione di se stessi, difensivi, timorosi del cambiamento, della novità, del diverso nelle loro vite”.
Ho invece dubbi sul “è il dopo che conta”. Perché per Sofri quel “dopo” è l’educazione, la cultura, la conoscenza e la cosa mi pare abbastanza ingenua. Forse bisogna intendersi su cosa vogliano dire quelle parole lì – dietro a “educazione”, “cultura” e “conoscenza” ci possono essere cose molto diverse – ma no, non credo che le cose siano così semplici, con i buoni e istruiti da una parte e i cattivi e ignoranti dall’altra. Intendiamoci: la conoscenza è una cosa buona e giusta, se non altro per capire meglio gli effetti delle nostre azioni. Ma non credo che da sola porti a essere più curiosi e rispettosi verso le altre persone – anche perché, se proprio c’è una correlazione, mi viene più facile pensarla al contrario: è la maggiore curiosità e apertura alle novità a portare una persona a conoscere più cose.
Nei prossimi giorni si concluderà la mia serie di interviste per i 300 anni di Kant. In totale ho scritto cinque articoli, una idea che penso di poter archiviare sotto l’etichetta “una cosa divertente che non farò mai più”, e non solo perché difficilmente sarò ancora in attività per il prossimo centenario kantiano. Però, nonostante l’impegno, è stato bello tornare a studiare Kant e vedere quanto, nel bene e nel male, gli siamo debitori.
Facciamo che i link agli articoli ve li metto tutti nella prossima newsletter.
Al Polo Nord c’è tanto ghiaccio. Nel senso che siamo intorno alla massima estensione annuale, ma non è solo questione chilometri quadrati. Lo spiega molto bene Antonio Scalari in questo articolo: l’artico è più complicato di un cubetto di ghiaccio tirato fuori dal congelatore e conta molto il cosiddeto “ghiaccio pluriennale”, quello più vecchio di un anno e quindi più spesso e più solido.
Al Polo Sud, invece, potrebbe esserci un problema – di nuovo – con il buco nell’ozono.
Storia della mia fibromialgia di Mariachiara Rafaiani è l’articolo più bello che ho letto in questi giorni. Intanto perché è scritto molto bene, con cruda ironia. E poi parla di un tema dannatamente importante: il nostro rapporto con la malattia e il dolore – dove il “nostro” si riferisce non tanto a chi li affronta direttamente, ma alla società.
Esco dalla lettura del libro con una nuova convinzione: non è vero che la soluzione ai miei problemi non esiste. Il problema è, piuttosto, che le radici della cultura occidentale, con la loro consacrazione della santità della colpa e una secolare apologia del valore espiativo del dolore, me ne privano.
In pochissime parole
Il gerundio “descrittivo” dei social, ovvero come capita che una frase agrammaticale stia diventando corretta.
Ho intervistato il Premio Nobel Thomas Südhof. Un tipo strano, ma interessante.
L’intelligenza artificiale e la fiducia, di Bruce Schneier, tradotto da Paolo Attivissimo.