Ciao,
sono Ivo Silvestro e questa è la 81ª edizione della mia newsletter settimanale di segnalazioni e riflessioni.
Oggi parliamo di pregiudizi e cancel culture, funghi, mammiferi e intelligenze non umane.
Ma prima una foto con sole, neve e un ponte:
Indovina chi viene cancellato
Ho rivisto Indovina chi viene a cena? di Stanley Kramer. Per capirci: quello con un magnifico Spencer Tracy grande difensore delle idee progressiste finché la figlia (Katharine Houghton) non gli dice di voler sposare un medico nero (Sidney Poitier) conosciuto dieci giorni prima: la moglie (Katharine Hepburn) superato lo stupore iniziale approva il matrimonio, ma lui proprio non ci riesce, preoccupato per la felicità della figlia confrontata con i pregiudizi della società statunitense degli anni Sessanta.
Ho rivisto il film e, come dicono gli scrittori per creare un po’ di suspense, molte cose sono accadute contemporaneamente.
La prima è che mia figlia – dieci anni compiuti da qualche mese – ne ha visto un pezzetto con me e non capiva bene cosa stesse succedendo. Cioè, che il problema fosse il colore della pelle le era chiaro da come sono costruite le prime scene: è la magia del (buon) cinema: si capirebbe anche se la discriminazione riguardasse teste tonde e teste a punta o altre caratteristiche fantastiche. Tuttavia faticava a inserire questo fatto nel disegno generale della storia, a dargli tutta quella importanza. Arrivata al momento in cui Katharine Hepburn vede per la prima volta Sidney Poitier – con una delle grandi battute del film: “Signora, io sono medico, quindi spero che lei non si offenda se le dico che farebbe bene a sedersi prima di cadere”1 –, mi ha chiesto quale fosse il problema, pensando al fatto che i due si conoscono da appena dieci giorni o alla differenza di età. In effetti lui ha 37 anni e lei 23, un paio d’anni al di sotto della regola standard “dividi la tua età per due e aggiungi sette anni” (o moltiplica per due e togli sette anni se parti dall’età del partner più giovane).2
Ripensandoci, penso che il problema fosse il passaggio da un pregiudizio individuale a uno collettivo, capire come si possa comunque essere condizionati da dei pregiudizi che non si condividono.
Durante il film è anche accaduto che mi sorprendesse il continuo ricorso della parola “negro” (sia in italiano sia in inglese). Me l’aspettavo: negli anni Sessanta quella parola non era considerata un insulto razzista, ma al massimo un’espressione colloquiale (infatti nelle situazioni più formali nel film usano l’espressione “colored”). Ma pur aspettandomelo, pur sapendo che è perfettamente normale in quel contesto, ugualmente ho avuto una piccola reazione emotiva di disgusto. Segno che ho interiorizzato l’inaccettabilità di quella parola, cosa che può rendere un po’ più difficile esprimere giudizi in contesti diversi da quello attuale, come appunto un film degli anni Sessanta.
Quello della contestualizzazione è stato uno dei temi ricorrenti di un incontro del ciclo Archivi del Novecento organizzato dalla Radiotelevisione svizzera e dall’Università della Svizzera italiana. Dagli archivi della televisione svizzera sono stati ripescati alcuni spezzoni oggi problematici ma all’epoca della prima messa in onda perfettamente normali. Vanno compresi nel contesto originale, hanno ribadito i due relatori.3 Il che è un po’ strano pensando che, sempre negli stessi ambienti culturali, spesso si insiste sull’universalità di certe opere.4 Ma soprattutto non è chiaro che cosa di preciso dovrebbe giustificare il contesto: a volte è una parola che ha cambiato accezione, ma altre volte si tratta semplicemente di pregiudizi che, per quanto socialmente accettabili, restano pregiudizi e non si capisce bene perché dovremmo giustificarli.
È successa un’altra cosa, durante il film. A un certo punto Katharine Hepburn incontra la responsabile della sua gallerie d’arte che si dice sorpresa e preoccupata dalla sciagurata scelta della figlia di sposare un nero.
Katharine Hepburn accompagna la donna alla sua auto e la congeda così:
Devi fare una cosa per me, Hilary: devi tornare più presto che puoi alla galleria (metti pure in moto); quando arrivi, di' subito a Jennifer che temporaneamente dovrà occuparsi lei della direzione e che mi telefoni se c'è qualcosa che non può risolvere da sé; poi vai nel mio ufficio e riempi un mio assegno, per te, per una somma di cinquemila dollari; poi con cura, ma con molta cura, Hilary, leva di mezzo tutte le più piccole cose che mi possano in futuro ricordare che tu sei stata la direttrice, non esclusa quella faccenda gialla con le luci blu alla quale tu sei tanto affezionata; poi prenditi l'assegno, di cinquemila dollari che è tutto ciò che meriti, e vattene, definitivamente, al diavolo; non perché io non ti voglia frequentare, Hilary, anche se è vero, ma perché temo proprio che noi non siamo più gente che tu possa d’ora in poi permetterti di frequentare. Non parlare, Hilary, ma... ingrana.
È una delle scene più belle del film. Ma allo stesso tempo è la scena di una persona che viene licenziata non per mancanze professionali, ma per le proprie idee. Insomma, è cancel culture.
In poche parole
GPT-4, il modello linguistico più avanzato di OpenAI, ha un anno di vita e Gary Marcus – che non so mai se definire “scettico” o “realista” sulle potenzialità dell’intelligenza artificiale – celebra l’anniversario con alcune osservazioni puntuali che riassumo in italiano:
Potremmo aver raggiungendo un plateau sulle capacità di questi sistemi, visto che bene o male sono tutti lì, anche i concorrenti che hanno investito un sacco di soldi come Google
Si può migliorare sulle applicazioni di queste IA, insomma capire come possano essere davvero utili al di là dell’effetto wow iniziale – ed è un processo complicato.
Rimangono problemi come le allucinazioni, l’instabilità delle risposte ed errori occasionali senza senso – il che è un problema chi vuole usare queste IA in contesti lavorativi, ma non ostacola più di tanto le attività criminali e di disinformazione che si accontenat di standard più bassi.
Grandi incognite sul diritto d’autore, sull’impatto ambientale (tema che non è stato ancora affrontato seriamente) e sulla redditività.
Aggiungo segnalando, sulla questione dell’impatto ambientale dell’IA, un articolo di The Atlantic: AI Is Taking Water From the Desert.5
Sempre a proposito di intelligenza, ho intervistato6 Merlin Sheldrake, un ricercatore che ha deciso di studiare i funghi scavando buche nella foresta pluviale, accompagnando cercatori di tartufi, assumendo sostanze psicoattive a altro ancora. Ha scritto un libro molto interessante, L’ordine nascosto, e vabbè forse esagera nel mettere i funghi al centro di tutto ma è anche vero che tendiamo a sopravvalutare gli animali grandi e grossi come noi e a sottovalutare altre forme di vita.
Visto il personaggio, mi aspettavo risposte un po’ più vivaci, ma una frase mi è piaciuta molto:
I funghi ci insegnano che non è necessario avere un cervello per risolvere problemi complessi.
Sempre a proposito di pregiudizi animali: non è poi così vero che i maschi sono più grandi delle femmine.
In pochissime parole
È morto il primatologo Frans de Waal. Con un po’ di audacia segnalo un mio articolo e quello di Telmo Pievani per il Corriere della Sera.
Siamo ossessionati dal personal branding? Forse sì.
Nell’ambito di un progetto universitario, ho scritto una cosa sulla verità delle immagini generate da IA.
Al che lei risponde “forse svenire è un po’ esagerato, però sarà meglio che mi segga”.
Peraltro la differenza di età tra i due attori è di qualche anno in più.
Olmo Giovannini e Vincenzo Matera, entrambi uomini come uomo era anche il moderatore, Massimo Zenari – a proposito di situazioni che col tempo potrebbero essere giudicate inopportune.
Certo, il fatto che vi siano aspetti “universali” non significa che non ve ne siano altri che dipendono dal contesto – resta il fatto che ci vorrebbe un qualche parametro per decidere se sono più importanti i primi o i secondi senza limitarsi alle preferenze ideologiche o al gusto personale.
Link per chi avesse problemi ad accedere all’articolo: archive.is/xhM4x.
Link per chi avesse problemi ad accedere all’articolo: archive.is/KqMbk