È la disinformazione, bellezza. E tu non ci puoi fare un bel niente
La newsletter numero 116 del 31 gennaio 2025
Ciao,
sono Ivo Silvestro e questa è la 116ª edizione di una newsletter settimanale che torna dopo oltre un mese di pausa.
Oggi parlo di fact checking, di avvisi musicali, vecchi film e memoria.
Ma prima una foto: ancora neve (del resto siamo in inverno).
E quindi, questo fact checking?
Trump ha vinto le elezioni e Meta, l’azienda dietro Facebook, Instagram e WhatsApp, ha subito rimosso il fact checking dai proprio social media. In questi giorni il fondatore Mark Zuckerberg ha anche deciso di sospendere i programmi interni di diversità e inclusione e di allentare fortemente le regole interne per limitare i discorsi d’odio, dimostrando di avere convinzioni salde quanto una banderuola pronta a girare in base al vento.
Sulla coerenza di Zuckerberg e le giustificazioni che ha trovato – dalla comunque nobile foglia di fico della libertà di espressione, sulla quale si potrebbe ragionare seriamente,1 alla fesseria dell’energia maschile che sì, l’ha detta davvero – si potrebbe scrivere molto, così come sulle conseguenze delle sue decisioni sul linguaggio d’odio i programmi di diversità e inclusione. Ma qui mi concentro sul fact checking perché sul tema si è discusso molto: ci si è chiesti se serve davvero a qualcosa, con polemiche tra contrari e favorevoli.2
Ed eccoci alle mie solite premesse: sono convinto che la disinformazione3 sia un problema sia perché peggiori la qualità delle decisioni che prendiamo (individualmente e come collettività), sia perché contribuisce alla polarizzazione e al moral grandstanding.4 Sono anche convinto che il fact checking non riesca sempre a migliorare la qualità delle decisioni (perché spesso ignoriamo le informazioni che non rispondono alle nostre opinioni di partenza) e al pari della disinformazione possa portare a polarizzazione e moral grandstanding, in particolare quando si accompagna a una ossessiva attenzione alla correttezza dei dettagli perdendo di vista altri elementi della comunicazione.5
Il fact checking è insomma una mediocre strategia persuasiva che diventa pessima quando ci si accompagna ad accuse di stupidità verso chi ha condiviso quelle affermazioni. Ma direi che la soluzione migliore sia non usarla come strumento di persuasione o pensare che basti aggiungere un avviso del tipo “contenuto manipolato” per risolvere il problema della polarizzazione.
A cosa può servire, quindi, il fact checking? Mi vengono in mente due risposte, una idealista e l’altra più pragmatica.
Quella idealista è abbastanza semplice: mantenere l’attenzione sull’importanza della verità o, meglio, della buona comunicazione basata sui fatti. Di fronte a un sistema che, non solo sui social media, premia i contenuti polemici, impegnarsi nel fact checking è una onorevole per quanto forse disperata operazione di resistenza.6
Ma non è solo Don Chisciotte contro i mulini a vento: fare fact checking, creando contenuti che analizzano la disinformazione, è utile per aiutare chi fa ricerche fai da te. Il motto “Do Your Own Research” è molto usato nell’ambito della controinformazione: indicando parole chiave poco comuni si possono infatti indirizzare le persone su precisi contenuti di disinformazione senza indicarli direttamente, scavalcando le loro “difese cognitive” visto che è una conoscenza che hanno in qualche modo ricavato loro.7 Giusto per fare un esempio concreto: quasi nessuno parlava di “crisis actor” (chi interpreta le vittime nelle esercitazioni di situazioni di emergenza) prima che si diffondessero le fantasie di complotto su tragedie simulate per manipolare l’opinione pubblica.8 Fare fact checking di quelle affermazioni, riprendendo le parole chiave come “false flag” e “crisis actor”, evita che quelle ricerche fai da te portino solo alla disinformazione: chi è già convinto che sia tutto un complotto difficilmente si convincerà del contrario, ma le molte persone semplicemente dubbiose troveranno informazione di qualità. E non è poco.
In poche parole
Lasciandomi trasportare dagli album suggeriti di iTunes Music, mi sono imbattuto in una registrazione della Terza sinfonia di Sibelius di Neeme Järvi. Il disco è del 1984, con copertina coerente con l’estetica del periodo:
Ad attirare l’attenzione non è tanto la foto da cartolina brutta, ma quel “WARNING” scritto in rosso. Ingrandendo l’immagine si legge l’invito a guardare cosa c’è scritto sull’altro lato. Che però non esiste, nella versione digitale. Su discogs ho trovato un altro disco della serie scoprendo che non c’è nulla di pericoloso, in quella registrazione: semplicemente mantiene “tutta la stupefacente dinamica della performance originale” e questo “contrariamente alle prassi discografiche”, credo in riferimento alla Loudness war. Fatto sta che consigliano, per ascoltare il disco, un apparecchio di prima qualità – e non so bene come considerare i miei auricolari bluetooth…
Il titolo di questa newsletter è ripreso da un film del 1952, L'ultima minaccia (Deadline - U.S.A.) di Richard Brooks con Humphrey Bogart nei panni di un direttore di giornale che, nell’ultimo numero da lui diretto, decide di denunciare una organizzazione criminale. Nel finale è al telefono con il boss mafioso e, alle sue richieste di non publicare nulla, risponde con il rumore delle rotative e, appunto, la celebre battuta “È la stampa, bellezza. La stampa! E tu non ci puoi fare niente. Niente”.
Curiosamente, questa frase sembra essere conosciuta soprattutto in italiano: Google mi restituisce poco più di tremila risultati per l’originale “That's the press, baby” e ben diecimila per “È la stampa, bellezza”.
Il 27 gennaio si è tenuta la Giornata della memoria e, seguendo i vari servizi e approfondimenti dedicati all’Olocausto, sono rimasto perplesso dai toni preoccupati con cui è stato discusso il fatto che presto non avremo più sopravvissuti ai campi di sterminio in vita. Perché una testimonianza diretta – che peraltro già da alcuni decenni si limita a persone che hanno vissuto quell’esperienza da bambini – dovrebbe essere indispensabile? Certo, ascoltare dalla viva voce di un sopravvissuto ha un impatto emotivo molto forte, ma anche ammesso che questo impatto emotivo sia così importante, abbiamo comunque ottimi prodotti narrativi che sono di altrettanto impatto. E per comprendere quello che sono stati l’Olocausto, la Soluzione finale e i campi di concentramento e di sterminio direi che è più utile la ricerca storica e sociologica.
“Because I have common sense, and unfortunately a lot of people don't”. Perché ho buon senso: così Trump ha risposto a chi gli chiedeva conto di una accusa decisamente grave. Ora, al di là dell’accusa in questione – che l’incidente aereo accaduto a Washington sarebbe collegato alle politiche di inclusione praticate dalla Federal Aviaton Agency –, l’affermazione merita una riflessione. Perché certo, il buon senso ci guida in molte azioni e decisioni e non è assurdo usarlo come giustificazione per una nostra credenza. Il buon senso mi dice di non correre in mezzo a una strada trafficata ma di correre verso un riparo quando piove senza perdere tempo in analisi che, quantomeno nel caso della pioggia, possono essere abbastanza lunghe. Tuttavia di fronte a un incidente aereo, il mio buon senso mi dice di non fidarmi del buon senso ma farle, quelle analisi, soprattutto se voglio muovere delle accuse (e ancora di più se lo faccio come presidente degli Stati Uniti, non come tizio che chiacchiera di attualità durante la pausa caffè).
Della storia dei troppi turisti a Roccaraso causa dei consigli di una influencer mi colpisce un particolare. Sarò misantropo, ma se arrivo in un posto che è strapieno di gente, come pare fosse Roccaraso, io cerco alternative. Certo, capisco che dopo qualche ora di viaggio magari uno non se ne torna subito indietro, ma si può sempre cambiare programma e fermarsi da qualche altra parte. Mi riconosco nella celebre affermazione di Yogi Berra,9 “in quel posto non ci va più nessuno, è troppo affollato”.
Ripeto: forse sono io misantropo. O forse molti di quelli che sono andati a Roccaraso non ci sono andati per quello che quella località turistica offre, ma per poter dire di esserci stati.
In pochissime parole
Alla fine il referendum sulla “città 30” a Bologna non si farà: è stato raccolto poco più di un terzo delle firme necessarie. Forse l’acceso dibattito ai tempi dell’introduzione del limite era poco rappresentativo (e peraltro c’è stata una grossa riduzione del numero di incidenti).
Perché dovremmo dedicare maggiore attenzione ai giganti di Mont’e prama.
Mezz’ora di discussione per capire un po’ di cose su DeepSeek, l’IA cinese di cui avrete sicuramente sentito parlare.
Ad esempio chiedendosi come mai non riguardano l’aborto.
Ho selezionato tre articoli che riassumono abbastanza bene il dibattito, ma di letture sul tema ce ne sono mille altre,
Con “disinformazione” mi riferisco, qui, un po’ a tutte le forme di cattiva informazione, dal sensazionalismo alla propaganda e falsificazione.
Che potremmo tradurre con “esibizionismo morale”, anche se si perde l’idea di “piedistallo” dell’espressione originale: in pratica assumere una determinata posizione non per migliorare il mondo (o capirlo un po’ meglio), ma per guadagnare prestigio all’interno del proprio gruppo. Sul tema, del quale ho già parlato, c’è un bel libro che consiglio.
Ci sarebbe poi il discorso della censura nelle sue varie forme – dal limitare la diffusione di alcuni post alle sospensioni degli utenti –, anche se questo è più che altro un problema della moderazione dei contenuti e non del fact checking.
Sempre che non ci si impegni per esibizionismo morale.
Ne avevo scritto giusto un paio di anni fa.
La pagina di wikipedia inglese è stata creata nel 2016, oltre un anno dopo il massacro alla Sandy Hook Elementary School e le relative fantasie di complotto.
OT: ma quando vieni su Bluesky?
Riguardo alla disinformazione trovo una grande mancanza che non ci sia una materia dedicata nelle scuole medie. Perchè in un mondo saturo di informazioni come non è mai stato prima, saperle filtrare è molto importante.