Ciao,
sono Ivo Silvestro e questa è la 124ª edizione della mia newsletter settimanale di segnalazioni – che trovate anche nel numero extra del lunedì – e riflessioni.
Oggi parlo di grifoni, convivenza delle differenze, racconti condivisi e giornalismo artificiale.
Ma prima una foto: un grifone al centro di un piatto ornamentale in terracotta ingobbiata.
Che cosa significa costruire una società ampia
Ho fotografato questo piatto ornamentale in una mostra che si è appena inaugurata al Museo delle culture di Lugano. Non è una mostra molto grande – occupa due stanzoni nello spazio ipogeo, che è il modo figo per indicare gli scantinati degli edifici – ed è insolita: raccoglie una sessantina di oggetti artigianali realizzati nella prima metà del Novecento nella Colonia-scuola “Antonio Marro” dell'Ospedale psichiatrico San Lazzaro di Reggio Emilia.
La storia di questa Colonia-scuola è molto interessante: ospitava bambine e bambini, ragazze e ragazzi dai 5 ai 15 anni di età che la società e la psichiatria dell’epoca avevano deciso essere “anormali”. Il che includeva non solo disabilità intellettive, ma anche sordità o problemi di comportamento, spesso aggravati (se non interamente provocati) da situazioni di degrado familiare. In questa Colonia-scuola non solo ricevevano un’istruzione e imparavano un mestiere ma, grazie all’incredibile lavoro della psichiatra Maria Bertolani Del Rio, familiarizzavano con i motivi ornamentali tipici dell’arte romanica, in particolare quella dell’epoca di Matilde di Canossa, la potente feudataria italiana vissuta tra XI e XII secolo (fu davanti alle mura del suo castello che avvenne la celebre umiliazione di Canossa). Riprendere e rielaborare quell’estetica negli oggetti artigianali – vasi, piatti ornamentali, teli, paramenti sacri eccetera – realizzati nella colonia-scuola non era solo un vezzo, ma parte del processo di crescita di quelle persone.1
L’esperienza della Colonia-scuola “Antonio Marro” durò fino agli anni Cinquanta, quando Maria Bertolani Del Rio andò in pensione, e mi sembra riassumere molto bene quello che io intendo con inclusione.
La prima impressione è quella di una società che decide, per bontà d’animo e per carità, di dedicare risorse a persone meno fortunate. Il che non è poco e soprattutto non è scontato, oggi e soprattutto all’epoca di Maria Bertolani Del Rio: di strutture come la Colonia-scuola “A. Marro” ce ne erano ben poche e qualche chilometro più a nord molte degli e delle ospiti sarebbero state giudicare “vite indegne di essere vissute” secondo il programma Aktion T4.
Tuttavia guardando gli oggetti esposti, esplorando il grande lavoro di ricerca sull’arte romanica che c’è dietro, scoprendo che una delle ospiti di quella colonia-scuola ha creato un particolare punto di ricamo (chiamato “punto canusino”) ancora oggi usato si capisce che c’è dell’altro. Non parliamo di una società che decide di aiutare le persone meno fortunate, ma di una società che impara a convivere con le differenze e nella quale chiunque ha la possibilità di dare il meglio di sé. Le bambine e i bambini “anormali” della colonia-scuola hanno potuto creare oggetti artigianali molto belli e in diversi casi lasciare la clinica psichiatrica e trovare un lavoro; Maria Bertolani Del Rio ha potuto studiare medicina – cosa non scontata essendo una donna – e migliorare le nostre conoscenze psichiatriche e di storia dell’arte. Siamo tutti più ricchi, in una società in cui le differenze possono convivere, una società che, più che inclusiva, dovremmo forse definire “ampia”.
Questa mia difesa dell’inclusione – o meglio della convivenza delle differenze – è utilitarista: una società ampia è più ricca e più forte di una società ristretta, nella quale pochi punti di vista o gruppi di persone sono presi in considerazione. Non penso che sia l’unico argomento a favore di una società ampia: penso che avere la possibilità di dare il meglio di sé, di autodeterminarsi, sia un diritto universale e quindi che sia un dovere garantire, o almeno non ostacolare, questo percorso. Ma i discorsi sui diritti, soprattutto se applicati alle minoranze, mi sembrano poco popolari, oggi.
Voglio quindi provare a usare la cornice utilitarista a quello che è principale tema di dibattito, in quanto a inclusione, di questi giorni: Biancaneve.
Breve riassunto per chi non ne sa nulla: nella serie dei film d’animazione Disney da rifare in live action perché son soldi facili2 si è arrivati al lungometraggio da cui tutto è iniziato, quel Biancaneve e i sette nani che nel 1937 fece la storia del cinema dal punto di vista tecnico, artistico e culturale. Solo che il meccanismo si è inceppato. Un po’ era già fragile di suo, dovendo adattare le storie non solo al diverso mezzo espressivo – una cosa disegnata è diversa da una cosa ripresa dal vero –, ma anche alle aspettative di un pubblico abituato a narrazioni più elaborate e personaggi più complessi, al tempo stesso senza deludere troppo i nostalgici amanti dell’originale. Ma con il remake di Biancaneve – come parzialmente avvenuto anche con il precedente remale di La sirenetta – ci si è messo di mezzo anche3 il woke, o meglio la guerra al woke inteso come atteggiamento moralistico e dogmatico su temi sociali. Così se la Biancaneve del nuovo film mostra un po’ di intraprendenza e autonomia è colpa del femminismo e del gender, non del fatto che oggi un personaggio principale, maschile o femminile che sia, che si limita ad assistere agli eventi farebbe sbuffare chiunque. E se l’attrice protagonista ha origini colombiane (e polacche, ma quello ce lo si dimentica sempre), è perché si vuole la sostituzione etnica, non perché Rachel Zegler è una brava attrice e assomiglia pure al personaggio del film originale.4
Non voglio dire che questo Biancaneve sia un capolavoro: è il solito remake in live action della Disney, un film tutto sommato ben fatto ma poco significativo – qui una mia recensione più dettagliata5 – ma che sono convinto sarebbe ancora meno significativo se Rachel Zegler non avesse avuto la possibilità di interpretare la protagonista.
In poche parole
Ancora su Biancaneve e i sette nani, ma da un altro punto di vista. Il film del 1937, come accennato, ebbe un importante impatto culturale. Contribuì anche alla diffusione dei valori su cui la società americana stava puntando per superare gli effetti della Grande depressione: onestà, senso della comunità e duro lavoro.
Immagino che non tutti condividessero questi valori, o li considerassero la base su cui (ri)costruire gli Stati Uniti, ma ugualmente Biancaneve e i sette nani riuscì a costruire un racconto condiviso. Il remake in live action no; e non sono sicuro che sia un problema del film.6
Mi capita, ogni tanto, di condividere7 articoli pubblicati da Il Foglio, anche se in generale le mie opinioni politiche sono lontane dalle loro. L’iniziativa Il Foglio AI però mi sembra, scusate il termine, una stronzata: l’idea è pubblicare per un mese una versione del quotidiano interamente realizzata tramite intelligenza artificiale. Solo che non spiegano che cosa hanno fatto di preciso – e sarebbe molto interessante sapere quali strumenti sono stati usati, quali richieste sono state fatte eccetera – e con risultati deludenti una volta superata la curiosità iniziale. Come Alberto Puliafito su The Slow Journalist, “non è il futuro del giornalismo, ma il suo simulacro: una macchina per riempire pagine con testi prevedibili, senza il rischio della realtà […] e senza alcuna reale novità”.
Le intelligenze artificiali generative hanno del resto già un ruolo in politica, soprattutto a destra – anche se penso sarebbe forse più opportuno parlare in generale di populismi, visto che l’idea è creare contenuti (soprattutto immagini e video) che funzionino come “amplificatori di cliché emozionali” oltre a raffigurare efficacemente i pericoli e i nemici della società tradizionale, come si legge in un interessante articolo di Pietro Minto pubblicato su Lucy.
In pochissime parole
Holden Thorp, caporedattore di Science, ha scoperto di essere una persona autistica. E ha raccontato la sua esperienza8 sul New York Times.
In America ormai neanche si fa più finta, di poter rinunciare alla carne.9
Altri dettagli nell’articolo che ho scritto sulla mostra: L’alfabeto ornamentale dei dimenticati (link accessibile: archive.is/xcJa5).
La motivazione artistica è ovviamente quella di riproporre quelle storie a un pubblico contemporaneo.
Ho scritto “anche” perché le polemiche non hanno riguardato solo quell’aspetto ma anche, ad esempio, la guerra a Gaza.
Sì, non ha la pelle “bianca come la neve” ma non è quello il cuore della storia e infatti nel film è stato risolto in maniera abbastanza dignitosa: Biancaneve è nata durante una tempesta di neve.
Link accessibile: archive.is/GcjfP.
Su questo ho scritto un articolo di opinione (link accessibile: archive.is/ma2c7).
Condividere nel senso di essere sostanzialmente d’accordo, ma in qualche occasione penso di averli anche segnalati in questa newsletter.
Link accessibile: archive.is/mHvgZ.
Link accessibile: archive.is/qWCpO.