Ciao,
sono Ivo Silvestro e questa è la 119ª edizione della mia newsletter settimanale di segnalazioni – che trovate anche nel numero extra del lunedì – e riflessioni.
Oggi parlo della morte del woke, di IA utili e inutili e di reperti restituiti.
Ma prima una foto: La contessa d’Adda negli estremi momenti di vita, modello originale in gesso della scultura di Vincenzo Vela.
Il woke è morto, lunga vita al woke
Quella foto l’ho scattata io al Museo Vincenzo Vela, dove sono andato per la presentazione di una installazione realizzata dall’artista Ishita Chakraborty. Un progetto interessante che mette un allestimento di impatto (grandi e colorate sagome di varie specie vegetali in mezzo ai bianchi modelli in gesso delle sculture di Vela) al servizio di una riflessione originale su cosa consideriamo “autentico” e “indigeno” e cosa invece importato o immigrato (o addirittura invasivo).
Nulla di sconvolgente, né dal punto di vista artistico – l’arte contemporanea, per vari motivi, può essere molto spiazzante – né da quello teorico, con quello che di fatto è un invito ad ampliare lo sguardo cercando altri sguardi per contestualizzare il nostro mondo. Eppure mi sentivo a disagio, durante la presentazione: sentivo che mancava qualcosa, forse non tanto in quel progetto artistico ma certamente nelle parole con cui ci veniva presentato.
Sempre in questi giorni ho incontrato il regista di film d’animazione Claude Barras.1 Il suo primo lungometraggio, il delicato La mia vita da Zucchina, era stato un successo guadagnando anche una candidatura agli Oscar (il premio era poi andato, senza grosse sorprese, al blockbuster Disney dell’anno, Zootropolis). Adesso abbiamo un nuovo film, Sauvages, che come mi ha spiegato il regista di per sé condivide gli stessi temi del precedente: la famiglia e la trasmissione di valori da una generazione all’altra. Ma qui siamo nel Borneo, i valori di cui si parla sono quelli del popolo Penan che vive nella foresta pluviale a rischio di distruzione. Ecologia, dialogo tra culture: temi che in questo momento non sono molto popolari. Anzi, diciamolo senza eufemismi: temi che sono diventati controversi e vengono rifiutati da una parte importante della popolazione. Cosa che, parole dello stesso Barras, probabilmente rendendo difficile la distribuzione del film.
È questa consapevolezza che mi è sembrata mancare al museo: come puoi proporre una riflessione sulla decolonizzazione dell’arte senza considerare il fatto che in questo momento un qualsiasi discorso che valorizzi “culture ed esperienze minoritarie”2 è percepito come un attacco all’ordine naturale delle cose?
Diciamolo sempre senza eufemismi: il woke è morto. Peggio: perché non è morta solo l’idea che bisogna restare sempre vigili di fronte alle ingiustizie sociali – definiamo così il concetto di woke che è in realtà molto più complesso e sfumato –, ma proprio l’idea che ci siano ingiustizie sociali e che siano un problema.
Poi alla tanto discussa “dittatura del politicamente corretto” si sta sostituendo, quantomeno negli Stati Uniti, non la libertà di dire quello che si vuole, ma una dittatura – e questa volta sostenuta dal potere oppressivo del governo, non da campagne di odio online che comunque possono essere pericolose – dell’anti-politicamente corretto. Come ha scritto Thomas Chatterton Williams su The Atlantic:
Donald Trump promised that his election would free Americans from ever having to worry about saying the wrong thing again. […] But a few weeks into his administration, we hardly find ourselves enjoying a culture of free speech and tolerance for opposing views. Almost immediately, the president did the opposite of what he’d promised and put together his own linguistic proscriptions.
Donald Trump aveva promesso che la sua elezione avrebbe liberato gli americani dalla preoccupazione di dover dire la cosa sbagliata. […] Ma a poche settimane dall'inizio del suo governo, siamo lontani dal godere di una cultura di libertà di parola e di tolleranza per le opinioni opposte. Quasi immediatamente, il presidente ha fatto il contrario di ciò che aveva promesso e ha messo insieme le sue proibizioni linguistiche.
Di questa contraddizione, e dell’idea di libertà di espressione che c’è dietro, magari parleremo un’altra volta. Torniamo al fatto che il woke è morto e soprattutto che non c’è più un consenso condiviso sulle ingiustizie sociali. In questa situazione – che probabilmente doveva essere chiara già ai tempi della prima vittoria elettorale di Trump – ha senso continuare a riflettere su questi temi come prima, dando per scontato che alcune persone non sono trattate come meritano?
Forse sì. Sempre in quell’intervista, Barras – che visti i tempi lunghi di realizzazione di un film d’animazione a passo uno non è che avesse molte altre possibilità – l’ha messa nei termini di un “confortiamo chi la pensa come noi”:
Penso che Sauvages, nel 2018 o 2019, avrebbe forse avuto un altro pubblico. Ma allo stesso tempo penso che sia ancora più importante che questo film esista oggi, per le persone che hanno voglia di resistere a questo mondo violento…
È una cosa sensata? Secondo me sì, anche per riflettere evitando quella “burocratizzazione” che in alcuni casi ha trasformato il tentativo di costruire società ampia in un insieme di quote e regolette. Ma è anche sensato riflettere su quelle idee che nel discorso pubblico non possiamo più dare per scontate.
In poche parole
La notizia più importante sull’intelligenza artificiale non sono i nuovi modelli di IA che vengono presentati a ritmo serrato, ma il fatto che aumentare la quantità di dati e la potenza di calcolo non basta. Ma, come scrive Gary Marcus su Fortune, al momento sembra essere l’unica strada che aziende e governi stanno percorrendo. Secondo Marcus questo aprirebbe nuove prospettive per chi “pensa fuori dagli schemi” per superare gli attuali limiti degli LLM3 che non avendo una vera comprensione di quello che dicono rimangono inaffidabili, con il continuo rischio di allucinazioni e ragionamenti assurdi.
Ma anche con questi limiti, le intelligenze artificiali generative funzionano? La mia esperienza personale dice di sì: uso quotidianamente alcune di queste IA (principalmente Claude.ai, ma anche notebookLM di Google e altre, magari ne parlerò meglio in una prossima newsletter) e hanno migliorato il mio flusso di lavoro.
Un grafico che la professoressa Barbara Caputo ha mostrato in una conferenza4 conferma questa mia impressione:
Da quel che ho capito (purtroppo non sono riuscito a trovare lo studio originale), ci si riferisce a un contesto lavorativo particolare (quello dell’assistenza alla clientela), ma è interessante vedere come a migliorare siano soprattutto le prestazioni delle persone più scarse. Stai a vedere che le IA potrebbero far ripartire il famoso ascensore sociale.
Tuttavia altrove la situazione sembra essere molto diversa.
Nel Museo nazionale della Cambogia ci sono troppe statue, scrive Il Post. Si tratta di oggetti trafugati durante il regime militare comunista dei Khmer Rossi che negli ultimi anni sono stati restituiti da musei e collezionisti privati.
Nel leggere questa notizia mi è tornato in mente un passaggio di una intervista5 che avevo fatto a Francesco Paolo Campione, direttore del Museo delle culture di Lugano.
«I musei europei fanno spazio nei propri depositi e questo per loro è un affare: in cambio di poche opere di valore, si fa bella figura e al contempo ci si libera anche di centinaia o migliaia di oggetti che rappresentano un costo, perché la conservazione delle opere nei depositi è una spesa importante nei bilanci dei musei». Non solo. «Spesso i Paesi di destinazione non hanno musei e a chi si rivolgono per costruirli? Agli occidentali: ci sono società che fanno esattamente questo, fanno musei in giro per il mondo: costruiscono l’edificio, allestiscono l’esposizione, formano il personale e via. «Non è forse anche questa una forma di neocolonialismo?».
In pochissime parole
Stiamo assistendo (o meglio: provocando) la sesta estinzione di massa? Massimo Sandal analizza il tema in dettaglio – nella sua nuova newsletter alla quale vi consiglio di iscrivevi.
Il caso della canzone estone “poco rispettosa della cultura italiana”.
Link accessibile: archive.is/HF4AY.
È una descrizione imprecisa ma spero sufficientemente chiara.
Che sta per Large language model, ovvero modello linguistico di grandi dimensioni – in pratica tutte le intelligenze artificiali generative che conosciamo.
L’immagine l’ho presa da questo video pubblicato su YouTube. Ho incontrato (e intervistato – qui versione accessibile) la professoressa Caputo in occasione di una sua conferenza a Lugano in occasione della consegna del Premio Möbius per l’intelligenza artificiali al servizio della società.
Link accessibile: archive.is/G77oo.