Ciao,
sono Ivo Silvestro e questa è la 100ª edizione della mia newsletter settimanale di segnalazioni e riflessioni – un traguardo che forse meriterebbe di essere celebrato in qualche modo. Ma alla fine è davvero un traguardo? Dopotutto parliamo di una cifra tonda solo per il sistema decimale. In base 2 questa è la newsletter numero 1100100, in base 12 la numero 84 e così via.
Il fatto che utilizziamo la base 10 è tutto sommato un caso, legato al fatto che abbiamo dieci dita delle mani. Come scrive Boyer nella sua Storia della matematica,1 “dal punto di vista matematico è un peccato che l'uomo di Cro-magnon e i suoi discendenti non avessero quattro o sei dita per ogni mano”.
Restiamo quindi alla consueta newsletter del venerdì mattina. E oggi abbiamo parlato di numeri, poi di due notizie che riguardano la disinformazione, di stazioni della metropolitana e di falsi ricordi.
Ma prima una foto: le spiagge del Tigullio viste da un SUP.
Si potrebbe fare qualche commento sulla quantità di stabilimenti balneari (e la sostanziale mancanza di spiagge libere, a parte qualche stretto corridoio tra gli stabilimenti), ma facciamo un’altra volta.
Una prima notizia: violenza da disinformazione
Ci sono notizie che ti colpiscono in maniera particolare: in genere cerco, nel consumo giornaliero di notizie, di essere obiettivo e razionale, di pensare alle effettive conseguenze degli eventi riportati dai media e non al loro impatto emotivo – ma alla fine alcune vittime sono solo numeri, altre delle persone con cui senti di avere un qualche tipo di legame.
Una notizia che mi ha colpito, in questi giorni, è stata quella dell’accoltellamento avvenuto a Southport, nel Nord Ovest dell’Inghilterra: pochi giorni fa, il 29 agosto, un ragazzo di 17 anni ha ucciso tre bambine e ferito diverse altre persone.
Questo evento mia ha colpito per la vicinanza anagrafica di autore e vittime con i miei figli. Ma anche per lo strano senso di sollievo provato nel leggere, dai primi resoconti, che non si trattava di un atto terroristico. Perché razionalmente dovrei essere più preoccupato da un adolescente che – perdonate l’espressione grossolana – “dà di matto” piuttosto che da un terrorista. Anzi: come società dovremmo essere molto più preoccupati dalle persone che, a causa di un qualche disagio mentale, compiono atti violenti piuttosto che da terroristi – che alla fine sono relativamente pochi ed è anche possibile identificarli e sorvegliarli prima che passino all’azione.
Quella viscerale sensazione di sollievo apre, o dovrebbe aprire, la strada a difficili riflessioni sulla salute mentale delle persone, su come la società gestisce (o non gestisce) situazioni di disagio.
Mentre pensavo a queste cose, la cronaca è andata avanti: a Southport e in altre luoghi del Regno Unito ci sono state violenze contro comunità musulmane e scontri con la polizia – perché si è diffusa la notizia che il ragazzo di 17 anni arrestato è un musulmano, arrivato da chissà dove con un barcone l’anno scorso. Secondo alcuni avrebbe persino urlato il classico “Allāhu akbar” che associamo al terrorismo musulmano.
Il ragazzo in realtà è nato a Cardiff da genitori provenienti dal Ruanda, Paese a maggioranza cristiana (i musulmani sono circa il 2% della popolazione, stando a Wikipedia). Ma i dettagli della sua identità, essendo un minorenne, non erano stati resi pubblici. Tuttavia non credo che si possa ricondurre a questa riservatezza la diffusione, sui social media,2 di informazioni false: le autorità avevano infatto subito detto che il presunto autore era nato nel Regno Unito. Certo la mancanza di dettagli avrà aumentato la diffidenza verso le forze dell’ordine, ma sarebbe ingenuo pensare che non sarebbe successo nulla se la polizia avesse comunicato tutti i particolari sul ragazzo arrestato.
Anche per questo ho qualche dubbio sulla decisione di rendere pubblico il nome del ragazzo. Come riporta la BBC, secondo il giudice che ha preso questa “eccezionale” decisione “continuare a impedire un resoconto completo in questa fase ha lo svantaggio di permettere ad altri di continuare a diffondere disinformazione nel vuoto”. Ripeto: non ne sono convinto e, per quanto comprenda le preoccupazioni del giudice, trovo preoccupante che delle fake news e degli scontri possano cambiare delle norme che hanno lo scopo di garantire un giusto processo.
In questa vicenda c’è poi un altro aspetto che mi ha dato da pensare.
C’è un certo dibattito sulla disinformazione online e certamente il tema è delicato – si tratta pur sempre di limitare la libertà di espressione delle persone – e ci sono mille situazioni ambigue in cui non è chiaro se e come agire. Ma qui ci troviamo di fronte a un caso talmente limpido da poter sostituire i classici esempi del tizio che urla “al fuoco” in un teatro affollato o –in questo caso l’esempio è di John Stuart Mill, che cito spesso in questi casi – quello che denuncia i mercanti di grano come affamatori di poveri di fronte a una folla eccitata che circonda la casa di un commerciante.
Capisco discutere su quale sia la strategia migliore per intervenire, ma fatico a capire le discussioni sulla necessità di fare qualcosa di fronte a situazioni del genere.
Una seconda notizia: certezze da disinformazione
La mia scarsa passione per lo sport mi lascia perlopiù tiepido verso le Olimpiadi – trovo più interessante vedere come un evento internazionale si trasformi in un ambiente ideale per polemiche e per la diffusione delle più svariate bufale.
Inizialmente questa doveva essere una breve sgnalazione, con giusto due fact checking di Facta che mi avevano incuriosito: alcuni nuotatrici non hanno la scritta «non sono un uomo» sul costume e EImane Khelif non è un’atleta transgender.
Ma il caso di Khelif non è rimasto, purtroppo, una semplice curiosità.
Riassumo brevemente i fatti per come li ho ricostuiti. Khelid è una pugile algerina con alti livelli naturali di testosterone. Probabilmente per questo motivo era stata esclusa dai Mondiali di boxe dell’anno scorso, gestiti dall’IBA, la Federazione internazionale di boxe: non è infatti chiaro il motivo dell’esclusione, il che confermerebbe la scarsa affidabilità dell’IBA accusata di corruzione e non più riconosciuta dal Comitato olimpico internazionale. Si è parlato, ma senza prove, di un test genetico che potrebbe al massimo far pensare a un caso di intersessualità (una cosa che in ogni caso non c’entra nulla con l’identità di genere o la transessualità). Quello che è certo è che Khelif si è qualificata per le Olimpiadi superando anche esami medici che hanno riscontrato livelli accettabili di testosterone.
Partendo da questi elementi alcune personalità pubbliche critiche verso il riconoscimento delle persone transessuali hanno concluso che Khelif è un uomo e farla partecipare alle Olimpiadi come donna fa parte delle “follie della teoria di genere”, arrivando persino a sostenere l’assurda tesi che l’incontro di pugilato tra Khelif e la pugile italiana Carini sarebbe un caso di violenza sulle donne.3
Qui segnalo, oltre all’articolo di Facta già citato, un riassunto del Post e un interessante commento di Andrea Monti pubblicato su Repubblica.
A stupirmi, in questa faccenda, è la granitica certezza manifestata da accusatori e accusatrici (e da molti giornali nel riprendere la notizia): abbiamo poche informazioni contraddittorie e poco affidabili, davvero bastano per affermare che un’atleta è in realtà un uomo?
Peraltro ci si è buttati subito sull’identità sessuale di Khelif, perché il tema più interessante dal punto di vista ideologico, ignorando quello che dovrebbe essere l’argomento più importante e pertinente visto il contesto: è equo che Khelif gareggi con altre atlete donne? Domanda non scontata: una naturale predisposizione per certe attività è alla base di tutte le competizioni sportive, pensiamo all’altezza nel basket; poi ovvio ci sono anche l’impegno e l’allenamento, ma in tutti gli sport vince anche chi ha il miglior patrimonio genetico. Come decidere che una determinata caratteristica – come un anomalo livello di testosterone – non è equa?
In poche parole
Come sono fatte le stazioni? Ok, alcune sono semplici: qualche binario e uno o due sottopassi o, se parliamo di metropolitane, accessi dalla superficie. Ma spesso la realtà è più complicata e un tizio si è messo a disegnare le stazioni che incontra nei suoi viaggi.
Ho finalmente capito come è fatta la stazione di Loreto a Milano:
E credo che non capirò mai come la stazione Nation a Parigi:
Purtroppo non c’è la stazione AV di Bologna – forse Albert Guillaumes Marcer non c’è mai stato, o forse c’è stato e ha deciso di lasciare perdere.
Sto finendo di scrivere questa newsletter il Primo Agosto, e uso le due iniziali maiuscole perché non si tratta semplicemente di una data, ma della festa nazionale svizzera. Trovo suggestivo che si celebri, settecento e rotti anni dopo, un documento nel quale uno dei punti centrali è il non riconoscere l’autorità di ogni giudice che “non sia abitante delle nostre valli o membro delle nostre comunità”.
Era il 1988 quando a Olympia, stato di Washington, due sorelle ventenni, Ericka e Julie Ingram, scossero la comunità accusando il padre Paul, stimato vicesceriffo, di abusi sessuali. Stupri e torture a loro dire proseguiti per anni, nel contesto di una setta satanica.
[…] Paul prima aveva negato. Poi, sconvolto dalle accuse delle figlie, aveva iniziato a raccontare fatti sempre più estremi. Ricordi che emergevano solo se imboccati dai detective, i suoi stessi colleghi. O da “esperti” chiamati a valutarlo, psicoanalisti senza esperienza e perfino il pastore evangelico di famiglia.
Anna Lombardi ha intervistato, su Repubblica,4 lo scrittore e giornalista Lawrence Wright in occasione dell’uscita, in italiano, del suo libro Inferno americano. Perché, lo si sarà intuito, Paul Ingram è innocente e non ha mai fatto le cose che si ricordava di aver fatto: un caso di falsi ricordi del quale – se non è un mio falso ricordo – avevo già letto diversi anni fa e che continua a colpirmi.
In pochissime parole
Un piccione che fa la cacca è una bella idea per un logo che voglia attirare l’attenzione – e anche la supercazzora5 che si sono inventati quelli del London Museum per giustificare la scelta non è male.
La salvezza e la dannazione di Israele, una interessante puntata di un podcast del Post con ospite Gad Lerner.
A Santorini ci sono così tanti turisti che le autorità locali invitano i residenti a non uscire di casa – ok, non è vero, era solo un post (poi rimosso, ammesso che sia mai esistito) di un sindaco dell’isola greca, ma al di là del titolo acchiappaclic il caso è comunque interessante.
Immagino che il testo sia ormai superato, ma è l’unica storia della matematica che abbia mai letto.
Con una spinta da parte di Russia Today, testata di fake news controllata dal governo russo, e la complicità di politici come Nigel Farage per il quale ci tengo a rendere pubblico tutto il mio disprezzo.
Assurda perché parliamo di una competizione sportiva: con lo stesso principio tutti gli incontri di boxe dovrebbero essere interrotti dalla polizia in quanto risse. Il che mi andrebbe anche bene: mai capito che gusti si provi a vedere delle persone prendersi a pugni per davvero (meglio i film di Bud Spencer e Terence Hill).
Intervista dietro paywall e ahimé non ho trovato versioni accessibili.
A quanto pare è più corretto chiamarla supercazzora e non supercazzola – anche se sospetto che la discussione sulla corretta grafia supercazzola sia essa stessa una supercazzola.