Ciao,
sono Ivo Silvestro e questa è la 136ª edizione della mia newsletter settimanale di segnalazioni – che trovate anche nel numero extra del lunedì – e riflessioni. E che anche se non esce di venerdì ha la data di venerdì, tanto il revisionismo va di moda.
Oggi parlo di divieti sensati, di quel che resta del Pride Month, di discriminazioni implicite e di metafore virali.
Ma prima una foto: chissà se i proprietari del pallone finito dietro la rete hanno intuito una possibile utilità del divieto…
Orgoglio matematico
Siamo nell’ultima decade1 di giugno e questo mi provoca una certa ansia, pensando a tutte le cose che devo portare a termine entro la fine del mese – ma della mia abitudine a procrastinare ne parleremo un’altra volta e qui mi limito a segnalare una bella puntata di Radio CICAP dedicata appunto al “lo faccio domani”.
Ma giugno è anche il mese dell'orgoglio LGBTQ, o forse “era” il mese dell’orgoglio LGBTQ perché mi pare che quest’anno il tema sia molto meno sentito. Non mi riferisco, meglio precisarlo subito, alle manifestazioni e alle varie iniziative “ufficiali” che mi sembrano le stesse degli anni passati. Mi riferisco a tutto il resto, al sostegno e all’attenzione che ricevono quelle iniziative e all’eco che ottengono. La mia è l’impressione di un osservatore non particolarmente attento, ma i numeri sul sostegno finanziario ai vari pride mi lasciano pensare che non sia un mio abbaglio.
Sarebbe bello se si trattasse di un disinteresse dovuto alla normalizzazione del mondo LGBTQ: perché organizzare cortei in un mondo in cui essere omosessuali o transgender fosse normale come oggi lo è l’essere mancini? Poi a ben guardare non è che essere mancini sia poi così normale: certo, almeno in Europa avere la sinistra come mano dominante non è più considerato contro natura e non richiede interventi di “correzione”, ma si dà per scontato che tutti usino la destra con conseguenze, ad esempio, sull’apprendimento e la sicurezza sul lavoro. Forse servirebbe un mese dell’orgoglio mancino – e, come dirò più avanti, sottostimiamo il peso di queste discriminazioni implicite e questo è un problema.
Ma quello verso il mese dell'orgoglio LGBTQ non è disinteresse, o almeno non è solo disinteresse perché, come tutti i fenomeni sociali, è una faccenda complessa che coinvolge vari fattori. Ma direi che gli elementi principali sono ostilità e conformismo. Sull’ostilità c’è poco da dire: in un mondo in cui l’empatia è considerata una debolezza, non sorprende che i problemi delle altre persone riguardino, appunto, le altre persone e non me. Se a questo aggiungiamo l’idea che la situazione socio-economica sia un gioco a somma zero, nel quale chi migliora la propria posizione lo fa danneggiando le altre persone, arriviamo alla situazione attuale con la bandiera arcobaleno percepita come se appartenesse a un Paese ostile.
In questo contesto, meglio non esporle, quelle bandiere, e ovviamente meglio non aggiornare il logo con sfondi arcobaleno. Ma qui è dove vedo il bicchiere non dico mezzo pieno, ma almeno non completamente vuoto: è la fine del Rainbow washing. Purtroppo non perché le aziende abbiamo deciso di essere coerenti ma perché al momento non è interessante, mostrarsi aperti verso il mondo LGBTQ. Ma almeno sappiamo chi davvero credeva nella diversità e nell’inclusione e chi lo faceva, appunto, per conformismo.
Ho citato l’empatia vista come una debolezza e la convinzione che più diritti ha un gruppo, meno ne hanno altri. Ma ho anche accennato a un altro fattore che secondo me gioca un ruolo nella scarsa sensibilità verso una società ampia: la tendenza a sottostimare il peso delle discriminazioni implicite. Parliamo di atteggiamenti inconsci che influenzano le nostre decisioni senza che ne siamo consapevoli: l'insegnante che incoraggia di più i maschi in matematica, il genitore che spiega diversamente un problema a un figlio o a una figlia. E poi abbiamo regole o prassi che sono apparentemente neutri ma, ad esempio, premiano la velocità o si basano sulla competizione anziché la collaborazione, favorendo un genere rispetto a un altro.
Direi che è chiaro, anche da questa imperfetta descrizione, quanto il fenomeno sia complesso e difficile da misurare (figuriamoci da affrontare). Ogni contesto sociale mescola età, classe, famiglia, scuola in combinazioni uniche e non è possibile condurre esperimenti in laboratorio isolando i singoli aspetti: siamo nella situazione di chi cerca di valutare l’importanza del tipo di farina potendo solo confrontare crostate ai lamponi con torte al cioccolato preparate da varie persone in cucine diverse.
Una ricerca pubblicata su Nature ha tuttavia trovato il modo di valutare i singoli ingredienti, valutando come la scuola penalizza il pensiero matematico nelle bambine. I ricercatori hanno sfruttato un “esperimento naturale” dovuto al fatto che, per iniziare la scuola, si stabilisce un limite di età. Quale che sia questo limite, si creano coorti – insomma, classi omogenee di soggetti – con differenze di età fino a 12 mesi. Confrontando bambini nati a dicembre (che fanno il test dopo un anno di scuola) con coetanei nati a gennaio (che hanno praticamente la stessa età ma un anno di scolarità in meno), si può separare l'effetto dell'età da quello della scolarizzazione.
Lo studio ha analizzato quasi tre milioni di bambini per quattro anni consecutivi, usando test standardizzati a 0, 4 e 12 mesi dall'inizio della scuola. I risultati sono netti: all'ingresso, maschi e femmine hanno performance matematiche identiche. Dopo soli quattro mesi emerge un gap significativo a favore dei maschi, che quadruplica entro il primo anno. Il fenomeno si replica in ogni regione, classe sociale, tipo di scuola e composizione familiare.
Il fatto è che, nel leggere i vari resoconto della ricerca – nella quale il meccanismo dell’età non era spiegato bene2 –, quando ho sentito che non contano regioni, status sociali eccetera, ho pensato "e quindi è una cosa legata alla biologia". Mi ci è voluto un attimo per realizzare che è una ben strana biologia, quella che si manifesta a età differenti ma sempre in concomitanza con quattro mesi di insegnamento “formale” della matematica. Credo sia un errore comprensibile: se qualcosa è universale, deve essere anche “naturale”. Ma in realtà quella universalità rivela quanto siano pervasivi i meccanismi culturali che portano a sviluppare questo gap.
La pandemia ha fornito un'ulteriore conferma del fatto che non sono i geni, ma è l’ambiente scolastico (sospetto in senso largo, includendo anche le famiglie, ma appunto torniamo alla difficoltà nel confrontare crostate e torte al cioccolato): durante i lockdown, quando la scuola formale si è interrotta, il gap è cresciuto meno.
È un problema? Sì. Ma – e credo sia importante evidenziarlo – non è un problema solo delle bambine. Intanto perché in questo ambiente anche i bambini subiscono bias impliciti simili che, in forme diverse, potrebbe penalizzare alcuni di loro. E poi proviamo a pensare a quante capacità matematiche stiamo sprecando come società. E non mi riferisco solo alla ricerca di punta ma a una sensibilità matematica utile per la vita di tutti i giorni.
In poche parole
Adoro le metafore – che considero innanzitutto uno strumento di conoscenza, non solo un modo per esporre idee – e mi interesso di disinformazione. Ovvi che mi sia subito incuriosito di fronte a un’analisi della metafora della disinformazione come un virus.
Il fatto è che sì, la disinformazione si diffonde in maniera simile alle infezioni – ma questo vale per qualsiasi fenomeno con crescita esponenziale. E pensare ai vari fattori che possono contrastare la diffusione della disinformazione come a una cura o a un vaccino è fuorviante. La metafora virale è allettante e per questo si è molto diffusa, ma rischia di orientare verso soluzioni tecnocratiche, ignorando la complessità dei processi comunicativi e psicologici umani.
In pochissime parole
Quando l’intelligenza artificiale non è artificiale, ma un gruppi di umani sfruttati.
Quanto un cavallo è più veloce di un re? (parliamo di scacchi, ovviamente).
Sì, sono uno di quelli che insiste nell’usare “decade” col significato di “dieci giorni” e non “dieci anni”.
La ricerca ha avuto una certo eco mediatica, almeno all’interno della mia bolla. Cito qui il bell’articolo di Andrea Capocci su Il Manifesto e la ripresa di Internazionale dell’articolo di Nature.