Ciao,
sono Ivo Silvestro e questa è la 117ª edizione della mia newsletter settimanale di segnalazioni – che trovate anche nel numero extra del lunedì – e riflessioni.
Oggi parlo di pozioni d’amore, di asteroidi, di probabilità e di fiammiferi.
Ma prima una foto:
Una pozione d’amore
Oggi sarebbe dovuto essere San Valentino e, anche se questa edizione della newsletter è in ritardo, la parte principale sarà comunque dedicata all’amore. Partendo da un classico: le pozioni d’amore. L’idea di una sostanza in grado di influenzare “affettività e dintorni” – a seconda delle versioni si passa dall’amore romantico all’eccitazione sessuale – è decisamente antica e mi pare che non avesse, di per sé, nulla di problematico a parte ovviamente i possibili abusi.
Le cose sono forse cambiate col romanticismo che vede male ridurre un nobile e potente sentimento a un infuso d’erbe. Nei racconti medievali è un filtro a far innamorare Tristano e Isotta, poi arriva Wagner e le cose cambiano leggermente: quella pozione ha fatto capire loro di essere già innamorati l’uno dell’altra, tanto che Isotta senza Tristano “muore d’amore”. O forse è stata la concorrenza di altre sostanze: la dipendenza da oppio e altre droghe potrebbe aver dato una brutta reputazione a sostanze che agiscono sulla psiche.
Quali che siano i motivi – le mie sono semplici supposizioni –, abbiamo l’impressione che un sentimento “sotto pillole” non sia autentico, trasformi un’esperienza normale in un disturbo medico, possa creare dipendenza e certamente avrà degli effetti collaterali. Brian D. Earp e Julian Savulescu, due filosofi abituati a ragionare su temi controversi, hanno affrontato il tema in un bel saggio di qualche anno fa, Love Drugs. The Chemical Future of Relationships. Intanto notano come la chiusura mentale verso le versioni moderne – ed efficaci – delle tradizionali pozioni d’amore abbia portato la medicina a trascurare gli effetti che alcune medicine possono avere sulle relazioni affettive, ad esempio sulla comunicazione all’interno della coppia. Perché di sostanze che sono simili alle tradizionali pozioni d’amore esistono, come ne esistono anche con l’effetto contrario: nel libro ne vengono analizzate alcune (ossitocina, Mdma ovvero l’ecstasy, e alcuni antidepressivi), evitando quindi un discorso astratto e puramente teorico.
L’amore, scrivono i due autori, ha una doppia natura, una biologica e una psicosociale: il cervello con i suoi neurotrasmettitori e i meccanismi di attrazione, desiderio e attaccamento da una parte, noi con i nostri desideri e le norme e aspettative sociali dall’altra. Non dobbiamo tuttavia pensare a due universi completamente separati: c’è una continua e costante interazione tra i due livelli. Se queste due dimensioni sono per così dire “in armonia”, va tutto bene: siamo innamorati del o della partner all’interno di una relazione sana e soddisfacente. Le due dimensioni potrebbero però non essere così in sintonia: siamo innamorati di una persona abusiva e violenta, o al contrario sentiamo venir meno l’amore per la persona con cui abbiamo costruito una famiglia. In questi casi sarebbe lecito, e forse anche opportuno, intervenire non solo a livello psicosociale, ma anche biologico.
Nel caso della “relazione grigia”, si tratterebbe di rinsaldare il legame affettivo. Al contrario, per la relazione tossica si parla di una “anti-love drugs”, in pratica una sostanza che interrompe quei meccanismi di attrazione, desiderio e attaccamento verso la persona abusiva. E qui potrebbe suonare un campanello di allarme: qual è la differenza tra la pillola che aiuta a troncare una relazione tossica e pericolosa e la pillola che, in alcune “terapie di conversione”, blocca l’attrazione omosessuale per una persona dello stesso sesso?
È la parte che ho trovato più interessante del libro. Earp e Savulescu rispondono su tre livelli. C’è innanzitutto l’aspetto del danno: in un caso l'intervento chimico ha come scopo liberare la persona da una situazione oggettivamente, mentre la relazione omosessuale non danneggia nessuno (diverso sarebbe il discorso per una attrazione pedofila). C’è poi la questione della pressione sociale: nel primo caso c’è la legittima preoccupazione per il benessere della persona coinvolta nella relazione tossica, nel secondo caso pregiudi e discriminazioni ingiustificate. E poi, aspetto secondo me centrale, l'autonomia: l'intervento chimico che libera dalla relazione tossica aumenta l'autonomia della persona, liberandola da legami emotivi dannosi, mentre nel caso della conversione questa autonomia viene ridotta, forzando la persona a conformarsi a norme sociali oppressive.
In poche parole
C’è un asteroide che potrebbe colpire la Terra. E negli ultimi giorni la probabilità che ciò avvenga è quasi raddoppiata. Ma rimane comunque bassa – più o meno come fare testa sei volte di fila lanciando una moneta non truccata, se non ho sbagliato i calcoli.
Questo del lancio della moneta è un buon esempio per dare un’idea della probabilità? Non so, perché comunque anche il lancio della moneta può essere controintuitivo: ottenere otto teste di fila mi basterebbe per concludere di aver preso l’unica moneta truccata in un forziere con diecimila monete?1 Il fatto è che in molte situazioni gestiamo molto male le probabilità e questo è un problema. Ho recentemente letto un bel libricino sul tema, in alcune parti un po’ tecnico ma comunque ben fatto e accessibile: Probabilità. Come smettere di preoccuparsi e iniziare ad amare l’incertezza di Hykel Hosni.
Il libro di Hosni è uno di quelli che ho “recensito” tenendo un fiammifero in mano per la Radiotelevisione svizzera. Il fiammifero – meglio specificarlo che di questi tempi non si sa mai – non serve per dar fuoco al libro una volta presentato, ma semplicemente a dare il tempo. Qui l’unico video per ora uscito, a proposito di un altro libro pubblicato da Carocci.
Quando mi hanno chiesto di partecipare a questa iniziativa ero un po’ perplesso: sono in generale contrario alle “pillole di”, nel senso che ok, alcuni saperi li puoi dividere in piccole unità autonome, ma in altri casi – che sono la maggioranza – la brevità porta a banalizzazioni. Questa rubrica, che fa parte di una trasmissione che “si prende il suo tempo” per sviluppare gli altri temi, però non è male: il tempo di un fammifero, alla fine, è poco anche per banalizzare e ti costringe ad andare all’essenziale.
Ci sarebbero molte cose da dire su queste prime settimane di presidenza di Donald Trump – e del resto è una strategia per “stordire” la stampa e i democratici (che comunque mi sembrano già storditi di loro).
Mi colpisce, in particolare, l’amara ironia di quelli del “non si può più dire nulla”, “la cancel culture” e “la dittatura del politicamente corretto” mettono il veto a parole ed espressioni presunte woke (“presunte” perché oltre la metà non c’entrano nulla, ammesso che ci sia qualcos di male nell’occuparsi del benessere di minoranze), e questo con i poteri di un governo, non di una campagna di critiche sui social media.
Qui il video di una intervista a Jeffrey Flier, uno dei critici (e direi con argomenti ragionevoli) delle politiche di diversità e inclusione e adesso preoccupato dalla cultura dell’intolleranza che arriva dal governo.
In pochissime parole
La miglior scoperta di aver vinto un Nobel di sempre.
La Senna sta molto meglio.
La storia surreale di un dipinto che non sembra un van Gogh, non è firmato da van Gogh, porta la firma di un altro artista, ma una società sostiene essere un van Gogh basandosi fondamentalmente sul nulla.
La risposta è: no. Mi ero imbattuto anni fa nell’indovinello e più recentemente ho provato ad analizzarlo.