Una newsletter soggettiva (e prescrittiva)
La newsletter numero 151 del 24 ottobre 2025
Ciao,
sono Ivo Silvestro e questa è la 151ª edizione della mia newsletter settimanale di segnalazioni – che trovate anche nel numero extra del lunedì – e riflessioni.
Oggi parlo di giornalismo, obiettività e neutralità, di letteratura e di gue.
Ma prima una foto: due funghi spuntati sul kiwi (potrebbero essere orecchie di Giuda, il che forse non promette bene per il kiwi)
Due o tre cose sul (buon) giornalismo
Questa settimana il pippone iniziale è particolarmente lungo. Potete leggere un riepilogo alla fine della sezione.
Nelle scorse settimane ci sono state un po’ di discussioni sul tema della neutralità nel giornalismo. Tutta colpa della Guerra Israele-Hamas — e uso apposta la definizione usata da Wikipedia, perché non voglio che questa newsletter diventi l’ennesimo posto dove ci si divide su quale parte condannare e quale assolvere o difendere (anche perché le “parti” non sono solo due: oltre a Israele, nel senso del governo israeliano di Netanyahu, e Hamas ci sono i civili palestinesi e quelli israeliani, i coloni, le opposizioni eccetera).
Il punto è un altro: è inevitabile schierarsi? Non dico avere un’opinione — è difficile non averne una, anche ingenua e sommaria, se si è un minimo attenti a quello che accade intorno a noi —, ma prendere posizione, “mettersi il cappellino” di uno schieramento. E, soprattutto, i media devono schierarsi?
Francesco Costa, direttore del Post, ha dedicato un episodio del suo podcast Wilson a spiegare perché no, se vogliono fare bene il proprio lavoro non dovrebbero schierarsi. L’argomento è più o meno questo: un giornale non deve prendere posizione, ma deve raccontare i fatti nel modo più accurato possibile, dare voce a punti di vista diversi, e lasciare che sia il lettore a farsi un’opinione. L’obiettivo è l’oggettività e Costa sostiene che schierarsi significa rinunciare a questa ambizione, trasformare il giornalismo in propaganda (anche quando è propaganda per una causa giusta), e soprattutto perdere credibilità quantomeno tra chi non condivide quella posizione.
Alberto Puliafito, nella sua newsletter The Slow Journalist, ha risposto che questa è un’illusione. Fare un giornale è già di per sé un atto politico: scegli cosa mettere in prima pagina e cosa no, quali fonti dare per affidabili, come titolare, quanto spazio dare a una notizia. L’idea di poter essere neutrali rischia di diventare un comodo alibi per non dover giustificare esplicitamente le proprie scelte editoriali. Meglio essere onesti: dichiarare da che parte si sta, rendere trasparenti i propri criteri, e permettere al lettore di valutare le informazioni sapendo da quale prospettiva vengono presentate.
Ora, io faccio il giornalista. Mi occupo di cultura, ma questo non mi mette completamente al riparo dall’affrontare temi delicati, per quanto non sistematicamente come chi si occupa ad esempio di politica. Il mio tuttavia non è solo un interesse professionale: ho studiato filosofia e il tema della conoscenza oggettiva è al centro dell’epistemologia (quella parte della filosofia che indaga, appunto, la conoscenza). La mia impressione è che il dibattito sulla neutralità e l’obiettività del giornalismo sia mal formulato, nel senso che usa categorie che non funzionano bene per capire cosa succede davvero quando produciamo o consumiamo notizie.
Si fa presto a dire soggettivo
Fare filosofia significa, innanzitutto, fare chiarezza sui termini che usiamo. E quindi questo testo inizia con alcune premesse terminologiche, spero non troppo noiose ma (credo) necessarie. Il fatto è che c’è una certa ambiguità, intorno ai termini “oggettivo” e “soggettivo”. Io l’ho scoperto leggendo La costruzione della realtà sociale di John Searle che, in uno dei primi capitoli spiega come, parlando di soggettività e oggettività, occorra distinguere tra ontologia e epistemologia, insomma tra le cose come sono e come le conosciamo.
Una cosa è ontologicamente soggettiva quando dipende dall’esperienza di un soggetto per esistere. Il dolore che provo quando urto il tavolino col piede è ontologicamente soggettivo: esiste solo in quanto io lo provo. Se non ci fossi io, quel dolore non esisterebbe da nessuna parte. Viceversa, una cosa è ontologicamente oggettiva quando esiste indipendentemente da qualsiasi esperienza soggettiva: il tavolino e il mignolino del mio piede esistono anche se nessuno li percepisce.
Questo per quanto riguarda le cose come sono. Poi c’è il problema di come le conosciamo. Una affermazione è epistemicamente oggettiva quando la sua verità o falsità dipende dai fatti, non dalle opinioni o preferenze di chi la formula. “La temperatura in questa stanza è di 22 gradi” è epistemicamente oggettiva: o è vera o è falsa, indipendentemente da cosa penso io. Una affermazione è epistemicamente soggettiva quando la sua verità dipende dagli atteggiamenti, preferenze o punti di vista del soggetto. “Questa stanza è piacevolmente calda” è epistemicamente soggettiva: dipende da come mi sento io, e qualcun altro potrebbe trovarla fredda. Interessante il caso della temperatura percepita, che è ontologicamente soggettiva — dipende da come gli esseri umani percepiscono le temperature, tenendo conto anche di vento e umidità — ma epistemicamente oggettiva, visto che abbiamo una formula precisa per calcolare il flusso termico.
Questa distinzione è rilevante per il giornalismo? Secondo me sì. Pensiamo a un inviato o a un’inviata che racconta quello che vede, diciamo in una località devastata da un terremoto: edifici distrutti, persone che raccontano di essere spaventate, i soccorsi. La sua — stiracchiando un po’ i termini — è una narrazione ontologicamente soggettiva: sta raccontando la sua esperienza personale, quello che vede dal suo punto particolare di vista. Ma epistemicamente il suo racconto è oggettivo: sta riportando fatti verificabili su quello che ha visto, sentito, ascoltato e le sue affermazioni sono verificabili indipendentemente.
Diverso il caso dell’analista che cerca di essere ontologicamente oggettivo e ricostruisce “come sono andate le cose” al di là delle prospettive personali. Legge report, incrocia fonti, tenta una visione d’insieme. Ma c’è il rischio di essere epistemicamente soggettivi, nella scelta delle fonti, nella valutazione delle informazioni, nelle interpretazioni da seguire. Puliafito fa l’esempio degli ostaggi israeliani e dei detenuti palestinesi; mi sembra difficile considerare “prigionieri di guerra” le persone catturate da Hamas il 7 ottobre, ma definire i palestinesi “detenuti” significa ignorare tutte le inchieste sull’illegittimità di quegli arresti.
Il punto di vista
La distinzione oggettivo e soggettivo in senso ontologico è relativamente chiara e semplice (anche quando Searle introduce i fatti istituzionali che costituiscono appunto la realtà sociale, ma è un altro discorso). Oggettiva è la realtà fisica, quella che un altro filosofo, Karl Popper, definisce “Mondo 1”; soggettivo è l’insieme degli stati mentali e psicologici, che Popper chiama “Mondo 2” (poi c’è il “Mondo 3”, che in pratica sono le idee platoniche, ma di nuovo è un altro discorso).
Ma quando parliamo di conoscenza, le cose sono più sfumate. C’è un continuum e alla fine quella che chiamiamo “pura oggettività” è più che altro un ideale regolativo, un obiettivo a cui tendere sapendo di non poterlo raggiungere mai completamente.
Buona parte dell’epistemologia contemporanea ci ricorda che la conoscenza è sempre situata. Non esiste un “punto di vista da nessun luogo”, come lo chiama il filosofo Thomas Nagel per descrivere quello che, con toni teologici, potremmo definire la prospettiva di Dio che vede tutto dall’alto e dall’esterno. Siamo sempre dentro qualche contesto, con un corpo, una storia, una posizione sociale, un insieme di assunzioni che ci portiamo dietro. E questo vale anche per la scienza che dovrebbe essere il regno dell’oggettività per eccellenza ma produce sempre “conoscenze situate”. Il che non significa che quelle conoscenze non siano vere: la distinzione tra ontologia ed epistemologia serve proprio a tenere separati i due discorsi. I vaccini sono efficaci nel prevenire le malattie da qualsiasi prospettiva, schema concettuale, frame culturale da cui vuoi guardare alla cosa. Solo che questi vaccini sono stati sviluppati da persone nate e cresciute in una determinata cultura e in un determinato ambiente sociale, rispondendo a determinati incentivi etici, sociali ed economici. E bisogna riconoscere questo contesto — anche perché potrebbe non coincidere con il contesto nel quale quegli stessi vaccini saranno distribuiti.
Riconoscere che la conoscenza è sempre situata non equivale al “tutte le opinioni si equivalgono”; significa piuttosto riconoscere che inseguire l’oggettività non vuol dire cercare di vedere tutto dall’alto, ma confrontare gli sguardi da terra. È una costruzione intersoggettiva che nasce dal confronto tra prospettive diverse, dal tentativo continuo di correggere i propri bias attraverso il dialogo.
Di nuovo, questo come si applica al giornalismo? Un primo livello è quello, abbastanza banale, che una notizia, prima di essere considerata vera, dovrebbe sempre avere due fonti indipendenti. E poi c’è un secondo livello: tenere conto di punti di vista diversi, anche contrastanti. Non la ricerca della neutralità — che di solito significa autocertificarsi tali —, ma dare un quadro della complessità. Tenendo presente che alcune posizioni sono più parziali di altre, nel senso che sono meno capaci di “aprirsi” ad altri di vista. Non (necessariamente) per malafede: spesso è semplicemente mancata abitudine al confronto con posizioni minoritarie o marginali.
E qui arriviamo a un punto delicato. L’oggettività come ideale regolativo – come orizzonte verso cui tendere pur sapendo di non raggiungerlo mai – può essere utile. Ma l’oggettività come pretesa realizzata – come affermazione di aver già raggiunto una prospettiva neutra e imparziale – può diventare uno strumento di potere. Perché “oggettività” diventa semplicemente il modo con cui universalizzare la propria prospettiva ed escludere gli altri punti di vista, magari confondendo l’oggettività ontologica con quella epistemica.
E quindi, il giornalismo si schiera o no?
Esaurita questa premessa iniziale, torniamo alla domanda iniziale. Il (buon) giornalismo deve schierarsi? Ed ecco la risposta deludente: la domanda è mal posta.
Il buon giornalismo è quello che ha l’ambizione dell’oggettività — vuole raccontare le cose nel modo più accurato possibile — ma si rende conto di essere sempre situato, di avere un punto di vista che magari è migliore di altri (ha accesso a informazioni, risorse o competenze che altrove non ci sono) ma è comunque parziale.
Un buon giornalismo è quello che è consapevole di questi limiti e ne tiene conto. Da questo punto di vista, mi riconosco maggiormente nelle osservazioni di Puliafito. Dire che “il giornalismo non deve prendere parte” rischia di nascondere tutta questa complessità, rischia di far credere che esista davvero una posizione neutra, quando invece ogni scelta editoriale — cosa mettere in prima pagina, quanto spazio dare a una notizia, quali esperti intervistare — è già un prendere parte.
C’è tuttavia un altro aspetto che non abbiamo preso in considerazione. E quindi un’altra premessa filosofica (scusate).
Non tutto è descrizione
Qui abbiamo dato per scontato che si parli di conoscenza, di descrizione della realtà, di quelli che la filosofia del linguaggio chiama “discorsi apofantici”, ovvero enunciati che possono essere veri o falsi, che dicono come stanno le cose.
Ma il linguaggio non è solo questo. Ci sono gli ordini (”chiudi quella porta”), le promesse (”ti giuro che verrò”), le richieste (”potresti passarmi il sale?”), e tante altre cose che non descrivono il mondo ma cercano di cambiarlo, o di stabilire relazioni, o semplicemente di esprimere qualcosa.
Nel giornalismo è raro trovare ordini o promesse, ma moltissimi articoli di opinione contengono raccomandazioni (”il governo dovrebbe...”), giudizi di valore (”questa è una legge ingiusta”), esortazioni (”bisogna reagire”). Sono tutti enunciati prescrittivi, non descrittivi.
Per capire la differenza tra un testo decrittivo e uno prescrittivo, John Searle (sempre lui) ha parlato di “direzione di adattamento” (direction of fit) tra parole e mondo. Ci sono enunciati che devono adattarsi al mondo: se dico “il gatto è sul tappeto” e il gatto non c’è, il problema è nelle mie parole. E ci sono enunciati dove è il mondo che deve adattarsi alle parole: se dico “accendi la luce” e tu non la accendi, il problema è nella tua mancata azione.
L’esempio classico riguarda la spesa al supermercato (forse dovremmo aggiornarlo con lo shopping online). La lista della spesa è prescrittiva, lo scontrino è decrittivo. La lista dice cosa devo comprare e la direzione di adattamento va dalle parole al mondo. Se c’è scritto “marmellata” e non la metto nel carrello, devo intervenire mettendo la marmellata nel carrello per far corrispondere il mondo alla lista. Lo scontrino, invece, dice cosa ho comprato e la direzione va dal mondo alle parole. Se c’è scritto “latte” ma nella borsa non c’è, intervengo correggendo lo scontrino (oltre alle doverose scuse per l’errore).
Il giornalismo è descrittivo o prescrittivo? A prima vista, descrittivo. Certamente lo è la cronaca: racconta cosa è successo; ma anche gli articoli di opinione dovrebbero comunque partire dai fatti prima di arrivare ai giudizi. Però — e finalmente stiamo arrivando al punto che mi interessa — la filosofia del linguaggio ama complicare le cose. C’è una terza dimensione, oltre alla sintassi (la struttura delle frasi) e alla semantica (il loro significato letterale): la pragmatica.
La pragmatica studia come usiamo il linguaggio in contesti concreti, e soprattutto cosa facciamo con le parole oltre al loro significato esplicito. È il regno delle implicature, dei sottintesi, delle cose che vengono comunicate senza essere dette direttamente. Paul Grice, il filosofo che ha fondato la pragmatica moderna, ha formulato il “principio di cooperazione”: quando parliamo, assumiamo che il nostro interlocutore stia cercando di essere informativo, rilevante, chiaro. E usiamo questa assunzione per inferire significati che vanno oltre il contenuto letterale. Esempio classico: alla domanda “In casa hai del caffè?” rispondo “C’è un bar all’angolo”. A livello letterale qualcosa non torna: a una domanda sulla presenza di qualcosa in casa rispondo indicando un’attività commerciale nelle vicinanze. Ma neanche ci facciamo caso: è naturale che la domanda iniziale riguardasse il desiderio di bersi un caffè e a quel desiderio abbiamo risposto, comunicando anche che non abbiamo il caffè in casa (o che la caffettiera è rotta). Questo significato aggiuntivo è un’implicatura conversazionale.
Ora, applichiamo questo al giornalismo. Cosa rende qualcosa una notizia? Lo insegnano in tutti i corsi di giornalismo: una notizia è il resoconto di un evento nuovo, rilevante e di interesse pubblico.
Un evento è nuovo quando non è la norma, quando rappresenta una rottura rispetto all’andamento ordinario delle cose. Ed è rilevante quando conta, quando ha conseguenze, quando – in qualche senso – non dovrebbe essere ignorato. In altre parole: se una cosa è una notizia, vuol dire che devia dalla normalità in maniera importante. E che non dovrebbe essere semplicemente accettata come fatto compiuto: richiede attenzione, reazione, forse intervento.
In altre parole: il giornalismo è sì una descrizione, ma è una descrizione che a livello pragmatico vale come prescrizione. Quando un giornale scrive “È accaduto X”, pragmaticamente comunica anche “X non dovrebbe essere accaduto” o almeno “X è qualcosa su cui dovete riflettere, formarvi un’opinione, possibilmente agire”.
Fate un esempio concreto. “Rapina in centro”. È una descrizione fattuale, certo. Ma pragmaticamente comunica: le rapine sono un problema, non dovrebbero accadere (o almeno non in centro, dove stanno le persone per bene e i turisti), è importante che voi sappiate che stanno accadendo, bisogna fare qualcosa (videosorveglianza? ronde di cittadini armati? più fondi alla polizia? più risorse per combattere l’esclusione sociale?).
Peraltro, in una città dove avvengono dieci rapine al giorno, la singola rapina non fa notizia. È normale. Se nella stessa città di rapine ne avvengono dieci all’anno, quelle dieci qualche titolo lo riceveranno (portando, paradossalmente, a una maggiore insicurezza percepita). Certo, ci sono articoli di approfondimento che sfuggono in parte a questa dinamica. Ma in generale il giornalismo vive di questa tensione tra descrivere (raccontare i fatti) e prescrivere (suggerire che quei fatti richiedono attenzione, giudizio, azione).
E qui sta il punto: questa dimensione pragmatica è sempre presente è parte integrante del processo di selezione e cura delle notizie. Pensare di stare solo descrivendo quello che accade sarebbe ingenuo.
La differenza la fa l’equilibrio. Se l’aspetto prescrittivo prende completamente il sopravvento su quello descrittivo, abbiamo un problema. È il giornalismo militante che parte da un obiettivo – solitamente politico – e seleziona i fatti da raccontare in funzione di quell’obiettivo, modellando la narrazione per sostenere la tesi prestabilita. Ed è qui che mi ritrovo a dare ragione a Costa: il giornalismo non dovrebbe schierarsi in questo senso. Non dovrebbe partire da un obiettivo e poi cercare i fatti che lo sostengono. Ma – e questo è cruciale – non è una questione di oggettività descrittiva. È una questione di onestà prescrittiva.
Il buon giornalismo è quello che riconosce la propria dimensione prescrittiva ma la subordina a quella descrittiva. Dice: sì, penso che questa sia una cosa importante su cui riflettere (prescrizione), ma prima ti racconto nel modo più accurato possibile cosa è successo (descrizione), e poi magari ti spiego anche perché penso sia importante (prescrizione esplicita).
L’elefante nella stanza
C’è un’ultima cosa, e forse è quella più importante (e forse anche un po’ imbarazzante).
Abbiamo parlato di discorsi descrittivi, che raccontano come vediamo la realtà. E di discorsi prescrittivi, che mostrano come dovremmo cambiare la realtà. Ma c’è una terza categoria, enorme: i discorsi che non descrivono né prescrivono nulla, perché parlano di cose che non esistono o che semplicemente non hanno nessuna conseguenza pratica.
È il caso della finzione: film, romanzi, serie TV che certo possono aiutare a comprendere la realtà o a immaginare alternative, ma in maniera indiretta, mediata. Quando leggo un romanzo non sto acquisendo informazioni sul mondo (anche se posso imparare molte cose), sto facendo un’altra cosa: mi sto intrattenendo, sto esplorando possibilità. Ma è anche il caso, più banalmente, delle chiacchiere con cui ammazziamo il tempo e, magari, costruiamo legami sociali.
Il giornalismo è descrittivo, è prescrittivo. Ed è anche intrattenimento. Quanta informazione consumiamo davvero per sapere cosa è successo o per capire cosa fare, e quanta invece per passare il tempo, per confermare le nostre idee, per sentirci parte di una comunità?
Se state pensando al gossip: sì, avete ragione. Ma in realtà è un fenomeno che riguarda tutta l’informazione. Leggo della causa che “lo sciamano del Campidoglio” (il tizio con le corna che aveva assaltato la sede del Congresso per impedire la nomina di Biden a presidente) avrebbe intentato contro Trump. È una notizia che può avere una certa rilevanza: è l’allontanamento di quella che è stata una base elettorale importante, per Trump, e che adesso si sente tradita. Ma in realtà mi limito a leggere della proposta di creare una moneta del valore di 40 trillioni (non sto neanche a capire se scala lunga o scala corta) di dollari, di come James Cameron gli avrebbe rubato l’idea di Avatar e altre corbellerie: mi diverto e mi sento superiore ai tanti sostenitori di Trump (inclusi quelli che non c’entrano niente con le fantasie di complotto abbracciate dallo sciamano del Campidoglio).
In questo contesto, ha senso parlare di oggettività, di neutralità, di descrizione?
Ricapitolando
Mi sono lasciato prendere la mano. Penso sia utile un breve riepilogo.
Chiedersi se i giornalismo deve schierarsi non serve a molto, se si vuole cercare di comprendere come conosciamo e raccontiamo la realtà. E questo per tre motivi.
La conoscenza è sempre situata, e l’oggettività assoluta non esiste. Ma questo non significa che tutte le prospettive si equivalgano – alcune sono più parziali di altre, e il lavoro serio consiste nel moltiplicare i punti di vista, non nel trincerarsi nel proprio.
Il giornalismo ha una componente prescrittiva che è sempre presente, anche quando si limita a descrivere. Negare questa dimensione è disonesto; ma se diventa dominante si trasforma in propaganda.
Molto di quello che chiamiamo “informazione” è in realtà intrattenimento identitario.
In poche parole
“L’editoria odierna esige quasi sempre la massima leggibilità. Il pubblico deve essere padrone dei libri che legge, e poco importa se per ottenere tale risultato bisogna appiattire alcuni stili considerati ‘difficili’”. Così scrive Edoardo Pisani su Pangea e potrei anche trovare la riflessione interessante, non fosse che l’ideale letterario di Pisani non solo invita a ignorare il lettore, ma addirittura a considerarlo un nemico. E allora, da lettore, mi permetto di contraccambiare considerando nemici autori che scrivono difficile non per esigenze espressive — che ci può stare, in letteratura come in saggistica —, ma per il proprio ego.
Stamattina ho sentito, all’interno dell’episodio quotidiano di Il mondo, la poco entusiasmante presentazione di un nuovo podcast di Internazionale dedicato alla guerra e infarcito si luoghi comuni. L’autore del podcast, Davide Maria De Luca, ha anche scritto un articolo di ben altro spessore e insomma, penso gli darò una possibilità, a questo podcast.
In pochissime parole
Come si organizza un festival (roba da divulgatori, ma forse non solo).



