L'età dell'oro
La newsletter numero 159 del 19 dicembre 2025
Ciao,
sono Ivo Silvestro e questa è la 159ª edizione della mia newsletter settimanale di segnalazioni – che trovate anche nel numero extra del lunedì – e riflessioni.
Oggi parlo di LLM, epistemia e frizione cognitiva, di xerociviltà e di nove volte sette.
Ma prima una foto:
Ci si rilegge a gennaio
Piccolo annuncio di servizio: quella che state leggendo è l’ultima newsletter in versione completa del 2025 – manterrò comunque la newsletter breve del lunedì.
Mi prendo infatti una settimana di pausa: ci si rilegge venerdì 2 gennaio, con credo qualche novità.
Quando avremmo iniziato a chiederci come sappiamo ciò che sappiamo?
Mi piacciono gli LLM, i Large Language Models – insomma le intelligenze artificiali generative come ChatGPT o Gemini. Ritengo che possano essere una tecnologia molto utile. Ovviamente, per come funziona la logica, il fatto di poter essere utili implica il fatto di poter anche essere inutili, se non addirittura pericolose.
Non è solo questione di errori – le famose allucinazioni–, di conseguenze sul mercato del lavoro o sulle disuguaglianze economiche e sociali. C’è anche un altro aspetto: viviamo in un mondo che è popolato da cose e da persone, e le trattiamo diversamente: le cose le usiamo, le persone le rispettiamo (o almeno dovremmo).
Da praticamente sempre le competenze linguistiche avanzate sono state un modo semplice di distinguere le cose dalle persone. Non solo quelle, ovviamente – e infatti gli animali non sono del tutto cose –, ma il linguaggio ci dava comunque la certezza di avere a che fare con una persona. E adesso non è più così: gli LLM sono indubbiamente cose – lo sappiamo per come sono costruite – ma hanno competenze linguistiche di tutto rispetto e anzi, sotto molti aspetti, superiori alle capacità umane. Questo cambia tutto e ci dobbiamo abituare.
Con un passaggio di verbo modale, possiamo dire che se se gli LLM possono essere utili, inutili o pericolose, noi – come individui e come società – dobbiamo ragionare sulla loro adozione. Riflettere quanto abbia senso investire su questa tecnologia, come e in quali ambiti usarla, e in quali è meglio proprio non metterci mano.
Ok, mi sto facendo un po’ prendere la mano con le premesse. Il succo è che sono convinto che dobbiamo avere un atteggiamento critico verso gli LLM. E sono altrettanto convinto che di questo atteggiamento critico non facciano parte le idealizzazioni del passato pre-LLM e delle capacità mentali umane.
Ed è esattamente per questo che non mi convince il concetto di epistemìa tanto caro a Walter Quattrociocchi, professore ordinario di Informatica alla Sapienza di Roma. Il concetto è stato introdotto nello studio The Simulation of Judgment in LLMs pubblicato su «PNAS» nell’ottobre 2025 e ripreso in interviste (come quella pubblicata da Treccani dalla quale riprendo alcuni passaggi), articoli e post sui social media.
Secondo Quattrociocchi, viviamo oggi nell’era dell’epistemìa, “un tempo in cui la conoscenza si confonde con la sua apparenza. I testi sembrano veri, coerenti e persino autorevoli, ma spesso non poggiano su nulla di solido”. Il termine richiama l’epistème della tradizione filosofica – il sapere fondato, giustificato, verificabile – ma lo rovescia: l’epistemìa sarebbe “la sua ombra linguistica: un sapere che conserva la forma dell’episteme ma ne perde la struttura interna”.
Non è che il fenomeno descritto da Quattrociocchi non esista. L’esatto contrario: esiste da sempre.
Già negli anni Ottanta del Novecento – molto prima dei social media – il filosofo Harry Frankfurt pubblicava On Bullshit, tradotto in italiano come Stronzate. Frankfurt analizzava proprio questa indifferenza alla verità: il bullshitter non mente, semplicemente non si cura di quello che è vero o falso, punta solo a impressionare. E possiamo andare ancora più indietro, all’antica Grecia e alle accuse di Socrate e Platone ai sofisti, maestri nel produrre discorsi persuasivi che “sembravano veri” senza esserlo necessariamente.
L’intervista a Quattrociocchi si intitola Epistemìa: abbiamo smesso di chiederci come sappiamo ciò che sappiamo. Certo, il titolo non è responsabilità sua, forse neanche dell’intervistatrice Beatrice Cristalli. Ma mi chiedo quando avremmo iniziato a chiederci sistematicamente come sappiamo ciò che sappiamo. Ce lo siamo chiesti spesso, certo, ma non ce lo siamo mai chiesti sistematicamente né nella vita quotidiana né nella ricerca scientifica. Ci fidiamo di quello che le altre persone ci dicono, valutiamo in base a indizi tra cui, ovviamente, la plausibilità.
Lo riconosce lo stesso Quattrociocchi: “questa dinamica non nasce con l’AI generativa”. Potrei anche concordare che gli LLM rischiano, se usati in maniera ingenua, di aggravare il fenomeno. Non credo però che siamo di fronte a un “salto di paradigma”, ma solo a una irrealistica nostalgia per un’inesistente età dell’oro dell’informazione.
Questa idealizzazione diventa evidente quando Quattrociocchi parla di Google. Sostiene che con l’introduzione dell’AI Mode nel motore di ricerca ci sarebbe stata una rivoluzione: “Per trent’anni la ricerca si è basata sul ranking: un processo in cui il motore indicizza il web e ordina le pagine secondo criteri di struttura, autorevolezza, collegamenti, segnali di qualità, storicità”. Solo che il PageRank su cui si basa(va) Google non valuta affatto la verità dei contenuti; non ne valuta neanche l’autorevolezza in senso epistemico; ne valuta semplicemente la popolarità, ovvero di nuovo la plausibilità che Quattrociocchi condanna.
Poi c’è tutto il discorso sulla “frizione cognitiva” – l’idea che l’apprendimento richieda attrito, fatica, attraversamento. “Delegare l’attrito significa delegare il pensiero”, scrive Quattrociocchi e certo, se voglio conoscere la meccanica quantistica, la filosofia stoica o la cucina libanese devo studiare e fare pratica. Ma perché gli LLM non possono fare parte di questo studio e questa pratica? Del resto ci sono entrate molte altre tecnologie: il web, le fotocopie – Umberto Eco aveva criticato la “xerociviltà” che ci fa tornare a casa dalla biblioteca con delle copie che non leggeremo mai invece che con schede di lettura –, i libri a stampa, la scrittura stessa. E poi, perché ridurre questa frizione dovrebbe essere di per sé un male? Per sapere se devo svoltare a destra o sinistra per il supermercato posso fare un rilievo topografico del circondario oppure chiedere informazioni a un passante. Non capisco perché il primo sistema sia preferibile, quando il mio obiettivo è comprare il latte.
In poche parole
Ho accennato a Umberto Eco e alle sue perplessità sulle fotocopie. Vale la pena citare due passaggi sulla xerociviltà, presi dal suo De Bibliotheca, il testo di una conferenza tenuta nel 1981 e che ho trovato nella raccolta Sette anni di desiderio.
L’altro inconveniente di questo tipo di biblioteca è che essa consente, avvia, incoraggia, la xerociviltà. La xerociviltà, che è la civiltà della fotocopia, porta con sé, insieme a tutte le comodità che la fotocopia comporta, una serie di gravi inconvenienti per il mondo editoriale, anche dal punto di vista legale. La xerociviltà comporta innanzitutto il crollo del concetto di diritto d’autore. È pur vero che in queste biblioteche, in cui vi sono decine e decine di macchine per fotocopie, se uno va al servizio apposito dove si spende meno e chiede di fotocopiare un libro completo, il bibliotecario dice che non è possibile perché è contro la legge sui diritti d’autore. Ma se si ha un numero sufficiente di monetine e si fotocopia il libro da soli, nessuno dice niente. Inoltre si può prendere il libro a prestito, e lo si porta fuori in certe cooperative studentesche che fanno fotocopie su carta coi tre buchi in modo da poterlo poi inserire in raccoglitori.
[…] In più, sul piano personale, nascerà la nevrosi da fotocopia. Del resto la fotocopia è uno strumento di estrema utilità, ma molte volte costituisce anche un alibi intellettuale: cioè uno, uscendo dalla biblioteca con un fascio di fotocopie, ha la certezza che non potrà di solito mai leggerle tutte, non potrà neanche ritrovarle perché incominciano a confondersi tra di loro, ma ha la sensazione di essersi impadronito del contenuto di quei libri. Prima della xerociviltà costui si faceva lunghe schede a mano in queste enormi sale di consultazione e qualcosa gli rimaneva in testa. Con la nevrosi da fotocopia c’è il rischio che si perdano giornate in biblioteca a fotocopiare libri che poi non verranno letti.
Altra citazione, questa volta presa dal bel saggio di Tullio De Mauro del quale avevo parlato la settimana scorsa:
Tra il rischio di farsi risucchiare nel gorgo d’un discorso improvvisato e senza fine e l’altro opposto di pronunziare un discorso senza legami con la situazione concreta della discussione, c’è una via di salvezza. Anzi, ce ne sono due. La prima via è quella del silenzio. Essa è raccomandabile soprattutto a tutti quelli che hanno più anni di scuola del medio cittadino italiano. Come si sa, il medio cittadino italiano ha fatto sei anni e un mese di scuola. Chi ha studiato dunque più di sei anni, non sarà mai abbastanza lodato tutte le volte che in una riunione, dibattito, assemblea sceglierà la via dell’ascolto attento e rispettoso e della rinunzia a manifestare il proprio punto di vista in discorsi e interventi. Oltre tutto, un istruito italiano, un laureato, un intellettuale, specie se maschio, che ascolti rispettosamente il prossimo, magari il prossimo non laureato, e rinunzi a spiegargli come stanno le cose, è uno spettacolo così eccezionale che richiamerebbe grandi folle a mirarlo. Con doppio vantaggio della riunione, assemblea, dibattito: il silenzio dell’intellettuale e la più vasta partecipazione popolare.
Chi invece si trova ad aver fatto pochi anni di scuola, chi comunque appartiene alle categorie sociali che hanno parlato di meno (le donne, i ragazzi sotto i quattordici anni, i tecnici, i non letterati, ecc.), farà sempre bene a parlare, a condizione d’avere qualcosa da dire.
In pochissime parole
Ragionare su come gli LLM potrebbero farci perdere competenze cognitive mi ha fatto tornare in mente un bel racconto di Asimov, Nove volte sette.
Il Kennedy Center si chiamerà Trump-Kennedy Center. Mi chiedo se dietro queste decisioni ci sia solo l’ego del presidente americano. Potrebbe essere un modo per assicurarsi la fedeltà delle persone: se hai votato una cosa così surreale come il “Trump-Kennedy Center”, non puoi più tirarti indietro.



