La natura gioca a dadi. E li ha sempre più forti
La newsletter numero 133 del 30 maggio 2025
Ciao,
sono Ivo Silvestro e questa è la 133ª edizione della mia newsletter settimanale di segnalazioni – che trovate anche nel numero extra del lunedì – e riflessioni.
Oggi parlo di frane alpine e di villaggi in Alaska, di democrazie e di gaffe artificiali.
Ma prima una foto: un’officina ferroviaria dismessa cinquant’anni fa e ancora funzionante.
Disastri di ieri, disastri di oggi
Come il più noto e prestigioso World Press Photo, anche la Svizzera ha un concorso dedicato al fotogiornalismo. Durante una presentazione, il direttore della fondazione che gestisce lo Swiss Press Photo Michael von Graffenried aveva ricordato come debba sempre spiegare a giurate e giurati internazionali di non aspettarsi immagini particolarmente forti o drammatiche. In Svizzera “si cucina con l’acqua”, espressione idiomatica tedesca che – se l’ho capita correttamente – rimanda alla semplicità di chi non usa spezie o condimenti particolari.
Direi che l’anno prossimo giurate e giurati dello Swiss Press Photo le avranno, un po’ di spezie, con le immagini della frana che si è staccata dal Kleinen Nesthorn e dal ghiacciaio del Birch, distruggendo il villaggio di Blatten.
Mentre scrivo questa newsletter a preoccupare non è tanto la frana – il villaggio era stato evacuato e al momento risulta solo una persona dispersa –, ma il fatto che sia stato ostruito il fiume Lonza: in pratica si sta creando un lago che, in caso di rottura della diga, spazzerebbe il territorio a valle.
È uno scenario che dalle mie parti si conosce bene: a scuola si studia la Buzza di Biasca. Anche in quel caso una frana ostruì il corso di un fiume, creando un lago ampio alcuni chilometri che, al cedimento della diga naturale qualche anno dopo la frana, si svuotò in poche ore, con vittime e danni in tutta la piana sottostante.
Questo avvenne nel 1500. Perché, è giusto ricordarcelo, i disastri naturali sono sempre avvenuti. La Buzza di Biasca non è certo legata al riscaldamento globale, visto che mancavano un paio di secoli all’industrializzazione e all’aumento delle emissioni di anidride carbonica. Per il Kleinen Nesthorn, invece, è facile immaginare che l’aumento delle temperature abbia avuto un ruolo, con le pareti rocciose non più “tenute insieme” dal ghiaccio e anzi confrontate con il peso dell’acqua frutto della fusione del ghiacciaio. Ma, come scrivono Giovanni Baccolo e Riccardo Scotti su L’altra montagna, “per comprendere a fondo le cause dell’evento dovremo […] probabilmente attendere alcuni mesi per lasciare il tempo ai ricercatori di analizzare i dati, sviluppare modelli e pubblicare le proprie ricerche”.
È difficile dire cosa sarebbe successo, se nel periodo tra la Buzza di Biasca e il Kleinen Nesthorn non ci fossimo messi a bruciare carbone e petrolio a tutto spiano (o più realisticamente se avessimo iniziato qualche decennio prima la transizione ecologica). Ma questo non vuol dire che non sia cambiato niente, in questi secoli o anche solo in questi decenni. Ma spiegarlo è difficile, se il discorso più semplice e diretto – “questa disastrosa frana è colpa del riscaldamento globale, è colpa nostra” – è anche semplicistico e impreciso.
Questo problema di comunicazione non riguarda solo il cambiamento climatico, ma tutte le situazioni in cui abbiamo a che fare con rischi e probabilità. Ci sono varie strategie, per raccontare queste situazioni in maniera efficace e accurata. Riflettendo sul Kleinen Nesthorn ho pensato al RisiKo. Penso ci abbiano giocato tutti, a RisiKo, o almeno tutti conoscono le regole per le battaglie: si lanciano da uno a tre dadi, a seconda del numero di armate a disposizione, e poi si guardano i risultati. Si prende il dado col risultato più alto dell’attaccante e lo si confronta col dado più alto dell’attaccato, poi se ci sono si passa al secondo e al terzo più alto. Nessun risultato è escluso a priori: in teoria una singola armata potrebbe resistere a tempo indeterminato; ma nella pratica sappiamo che più armate si hanno, più dadi si possono tirare, più è probabile vincere. Ecco, col riscaldamento globale è come se avessimo dato alla natura un dado speciale con le facce da 2 a 7 anziché da 1 a 6. Anche quel dado può perdere, e non è detto che non avrebbe vinto lo stesso anche con un dado normale, ma una differenza la si vede. E più passa il tempo più quel dado diventerà più forte: aumenta la concentrazione di anidride carbonica e le facce saranno da 3 a 8, magari addirittura da 4 a 9. Le vediamo a Blatten ma lo vediamo anche in altre località. Si stima che nei prossimi anni molti rifugi alpini saranno inaccessibili proprio per lo scongelamento del permafrost.
Nei secoli che ci separano dalla Buzza di Biasca è cambiata anche un’altra cosa. Sappiamo gestire meglio le emergenze: abbiamo le conoscenze e i dati per prevedere frani e cedimenti; possiamo monitorare i movimenti delle rocce con rilevatori GPS che sarebbero stati stregoneria nel Cinquecento e fantascienza fino a qualche decennio fa; abbiamo gli strumenti per evitare che una diga naturale accumuli negli anni milioni di metri cubi d’acqua.
È un progresso incredibile: una frana ha distrutto un intero villaggio e c’è un solo disperso e sono ragionevolmente sicuro che i danni saranno contenuti anche per quanto riguarda l’acqua che si sta accumulando nel fondovalle. È, lo ripeto, un incredibile progresso. Ma al tempo stesso rende ancora più difficile raccontare quello che sta succedendo: la frana diventa il video spettacolare da condividere sui social media o per riempire gli appuntamenti informativi in tv. È normale: certo ci sono stati danni, molte persone sono rimaste senza casa ma alla fine c’è un solo disperso, tiriamo un sospiro di sollievo e pensiamo alle belle immagini che selezioneranno quelli dello Swiss Press Photo. Senza renderci conto che la natura gioca a dadi e lo fa sul nostro territorio e sulle nostre vite.
In poche parole
Restiamo in tema permafrost che si fonde e paesi che spariscono, ma con una storia un po’ diversa. Siamo a Newtok, un villaggio in Alaska che nel 2000 aveva poco più di 300 abitanti. E adesso ne ha zero: il disgelo del permafrost, appunto, l’intensificarsi dell’erosione costiera e tempeste più frequenti e intense hanno reso necessario abbandonare il villaggio e ricollocare gli abitanti, appartenenti al popolo Yup'ik, altrove.
Una soluzione costata qualche milione di dollari e, nonostante i proclami, gestita molto male dalle autorità governative, come scrivono Emily Schwing e Ash Adams sul Washington Post. In perfetta continuità con la storia di Newtok, sorto in quel posto quasi per caso: nel 1950 il Bureau of Indian Affairs decise di costruire lì la scuola semplicemente perché in quel posto si era arenata la barca che trasportava il materiale da costruzione, costringendo gli Yup'ik a una vita sedentaria in un luogo che consideravano insicuro. Ovviamente le loro conoscenze tradizionali erano state ignorate, in un processo di ingiustizia epistemica che adesso si unisce all’ingiustizia climatica.
Come ha riassunto Il Post, “è cambiata l’aria attorno a Israele”: anche chi difendeva, o non condannava, l’operato dello stato israeliano sta assumendo posizioni critiche. Sulle conseguenze che questo isolamento potrà avere sospendo il giudizio: spero per il meglio ma temo il peggio. Ho comunque notato che si sta anche mettendo in discussione un classico argomento “Pro Israele”, ovvero quello dell’unica democrazia del Medio Oriente.
È sempre Il Post ad affrontare il tema con una domanda terribilmente ingenua, Israele è ancora una democrazia?, alla quale cerca di dare una risposta sensata e dettagliata che potrei riassumere dicendo che tutte le democrazie sono imperfette, ma quella israeliana è più imperfetta delle altre.
Solo che io temo sia l’esatto contrario: Israele è la meno imperfetta delle democrazie e le altre democrazie farebbero ben di peggio, nella stessa situazione. Non è una giustificazione delle violenze a Gaza o in Cisgiordania, è solo un po’ di realismo: per molto meno, sostanzialmente per un po’ di consenso elettorale, i Paesi europei non solo tollerano, ma di fatto appoggiano aperte violazioni dei diritti umani in Libia, pur di tenere fuori i migranti. Quello che sta facendo Israele è terribile; ma non sono sicuro che le democrazie occidentali farebbero qualcosa di molto diverso.
Sembra1 che Repubblica, in un post, abbia definito Trump “l’ex presidente USA”.
Trump in effetto lo è stato, ex presidente: ho il sospetto che quel testo sia stato generato da una qualche intelligenza artificiale generativa addestrata prima della rielezione di Trump.
In pochissime parole
Una striscia dei Peanuts di qualche anno fa che spiega molto bene perché la pseudomedicina funziona.
Lo screenshot mi è arrivato da fonte affidabile, ma non sono riuscito a verificarlo e immagino sia stato nel frattempo corretto.