Ciao,
sono Ivo Silvestro e questa è la 61ª edizione della mia newsletter settimanale di segnalazioni e riflessioni; un benvenuto alle persone che si sono recentemente iscritte – se volete farmi sapere cosa vi piace, o non vi piace, di questa newsletter lasciate un commento o scrivetemi. Premetto che quella che state leggendo è un’edizione un po’ diversa dal solito: questa settimana sono in viaggio e ho avuto meno tempo del solito per leggere cose interessanti da analizzare o segnalare. Oggi parliamo di Biennale dell’architettura, di immagini artificiali e pregiudizi reali.
Ma prima una foto:
Passeggiando per il sestiere di Cannaregio a Venezia mi sono imbattuto in questo bellissimo “citofono robotico” che sfrutta la pareidolia per dare un aspetto simpatico a un oggetto di per sé neutro. Certo l’idea non è replicabile per abitazioni con più di due appartamenti, a meno di non dare vita a creature con molti occhi. E se la prospettiva di parlare a un volto può rendere la conversazione più naturale, c’è il piccolo problema che la voce esce dal naso e per avviare la conversazione bisogna infilare un dito in un occhio.
Un’altra foto curiosa scattata lì vicino:
Il futuro di una volta
Durante questi giorni veneziani sono stato alla Biennale di architettura. Credo che al mondo esistano pochi progetti grandi complessi come le biennali – io ho dedicato una giornata intera a visitare prima i Giardini e poi l’Arsenale ma ci sarebbe voluta una settimana intera per dedicare a ogni proposta l’attenzione che merita. Quelle che riporto di seguito sono quindi impressioni molto parziali. Anche perché ho varcato i cancelli della Biennale conoscendo solo il titolo dell’edizione di quest’anno, “The Laboratory of the Future”. Quella di non documentarmi è stata una scelta deliberata: credo che la cultura debba in una qualche misura “bastare a sé stessa”, riuscire a presentarsi e a dire qualcosa senza richiedere grandi studi preliminari. È dopo che, eventualmente, mi piace approfondire.
Ma se sono restio a documentarmi troppo prima di visitare una mostra è anche perché spesso nelle presentazioni d’arte abbondano le supercazzole,1 discorsi apparentemente profondi ma che in realtà non significano nulla e hanno solo la funzione di far pensare a chissà cosa. L’idea che la Biennale di architettura possa essere “un agente di cambiamento” – enunciata dalla curatrice di quest’anno, l’architetta e scrittrice Lesley Lokko – non è tuttavia così astrusa, una volta illustrata:
Una mostra di architettura è allo stesso tempo un momento e un processo. Prende in prestito struttura e formato dalle mostre d’arte, ma se ne distingue per aspetti critici che spesso passano inosservati. Oltre al desiderio di raccontare una storia, anche le questioni legate alla produzione, alle risorse e alla rappresentazione sono centrali nel modo in cui una mostra di architettura viene al mondo, eppure vengono riconosciute e discusse di rado. È stato chiaro fin dal principio che The Laboratory of the Future avrebbe adottato come suo gesto essenziale il concetto di “cambiamento”.
Credo che sia una interessante lettura del concetto di sostenibilità: non la mera contabilità dell’impatto ecologico e sociale ma l’idea di ragionare non solo su che cosa che si fa ma anche su come lo si fa. Sperando che questa riflessioni diventi qualcosa di più elaborato del progetto visto al Padiglione della Germania, trasformato in deposito dei materiali della Biennale arte dell’anno scorso.
Lesley Lokko è nata in Scozia ma è “cresciuta in Africa”,2 ha studiato negli Stati Uniti e in Inghilterra e vive tra Londra e Accra. E al centro del progetto di questa Biennale ci sono i “practitioner”3 dell’Africa e della diaspora, unendo al tema della decarbonizzazione quello della decolonizzazione. E devo dire che i loro lavori sono stati tra i più interessanti per come provano a immaginare un futuro partendo da idee e narrazioni nuove e alternative a quelle occidentali. Per contro, i Paesi occidentali – salvo alcune eccezioni notevoli – sembrano partire dal presupposto che il futuro sostenibile è quello che rinuncia a un secolo di sviluppi tecnologici, in una visione nostalgica quantomeno ingenua.
Storie di immagini
Sempre a Venezia ho visitato la bellissima mostra “Chronorama” a Palazzo Grassi. L’idea è molto semplice: prendere l’archivio fotografico della Condé Nast, il gruppo editoriale nato a inizio Novecento e che pubblica Vogue, Vanity Fair e The New Yorker, e mettere alcune delle immagini in ordine cronologico per decennio fino agli anni Settanta. Il risultato è notevole, per la qualità delle foto – conclusa la visita mi sono comprato il voluminoso catalogo – ma soprattutto per la loro capacità di raccontare un’epoca.
A proposito della capacità delle immagini di raccontare storie: cosa diremmo se le persone attraenti fossero tutte giovani e dalla pelle chiara, se le persone musulmane4 fossero tutte maschi con la barba e il capo coperto, gli africani primiviti e le donne asiatiche sessualizzate? Questo elenco di stereotipi non proviene dal discorso di qualche politico o da qualche libro del secolo scorso che si vuole emendare ma da un articolo del Washington Post sui pregiudizi che trovano spazio nelle immagini generate da intelligenze artificiali. Scritto da Nitasha Tiku, Kevin Schaul e Szu Yu Chen, l’articolo non si limita a documentare il problema ma ne approfondisce anche l’origine e traccia alcune possibili soluzioni. Senza particolari sorprese, il punto debole del sistema sta la base dati che viene utilizzata per addestrare le intelligenze artificiali. Ma per uscirne non basta ripulire questi archivi dagli stereotipi presenti: occorre pensare a nuove basi dati, nuovi insiemi di immagini (e di testi) che tengano conto della diversità umana.
In teoria il termine filologicamente più corretto sarebbe “supercazzora” con la erre. Ma parlare di filologia per le supercazzole è a sua volta una supercazzola.
Così riporta Wikipedia ed è un’espressione un po’ curiosa: parliamo di un territorio di 30 miliari di chilometri quadrati, un quinto di tutte le terre emerse.
«Abbiamo espressamente scelto di qualificare i partecipanti come “practitioner” e non come “architetti”, “urbanisti”, “designer”, “architetti del paesaggio”, “ingegneri” o “accademici”, perché riteniamo che le condizioni dense e complesse dell’Africa e di un mondo in rapida ibridazione richiedano una comprensione diversa e più ampia del termine “architetto”».
“Persone musulmane” mi suona un po’ artificioso, ma non ho trovato un altro modo per evitare l’ambiguità del maschile sovraesteso: in italiano “musulmani” può indicare sia un gruppo di uomini e donne sia un gruppo di soli uomini, cosa che non avviene in inglese.