Ciao,
sono Ivo Silvestro e questa è la 134ª edizione della mia newsletter settimanale di segnalazioni – che trovate anche nel numero extra del lunedì – e riflessioni.
Oggi parlo di Pinocchio, di quel che resterà dell’idea di autore, di intelligenze artificiali che leggono cose per conto nostre e di quiet ego.
Ma prima una foto: un grillo1 non parlante.
Il grillo parlante, lo sappiamo, è quello che redarguisce Pinocchio rimediando – siamo nel quarto capitolo del libro – una bella martellata. Ma il grillo parlante, o quantomeno un grillo parlante, torna più avanti per provare a curare Pinocchio: è, insieme a un corvo e a una civetta, uno dei tre medici chiamati dalla Bambina dai capelli turchini per visitare il burattino.
Credo che nelle intenzioni di Collodi i tre personaggi dovessero rappresentare l’inutilità della professione medica. E in effetti, quando si tratta di capire se Pinocchio è vivo o morto: per il corvo è morto, “ma se per disgrazia non fosse morto, allora sarebbe indizio sicuro che è sempre vivo”; mentre per la civetta è vivo, “ma se per disgrazia non fosse vivo, allora sarebbe segno che è morto davvero”.
E il grillo? Il grillo in realtà dice una cosa che mi sembra saggia: “Io dico che il medico prudente, quando non sa quello che dice, la miglior cosa che possa fare, è quella di stare zitto”.
Sì, abbiamo bisogno dell’autore
Pinocchio, si sa, l’ha scritto Carlo Collodi. Poi in realtà è il Pinocchio di Walt Disney, quello che più facilmente viene in mente, nonostante un elenco che immagino bello lungo di adattamenti e opere derivate. Meno lungo, ma immagino comunque nutrito, è l’elenco di fonti alle quali Collodi si è più o meno consapevolmente ispirato per la creazione del personaggio. Del resto è così che funziona la creatività: immagino che le idee possano venire anche a vivere lontano dal mondo, ma credo che le buone idee nascano solo attingendo da un contatto con il resto dell’umanità.
Eppure è Collodi, l’autore di Pinocchio. È una cosa che diamo per scontata, senza renderci conto delle stratificazioni di significato dietro questa frase apparentemente banale.
Uno di questi strati, e sospetto il principale, è dato dalle leggi sul diritto d’autore che hanno una storia molto diversa da quelle sul copyright, anche se di fatto gli effetti pratici sono molto simili. Se il copyright riguarda sostanzialmente la stampa di libri e serve sostanzialmente a tutelare gli interessi economici di chi possiede le tipografie, il diritto d’autore nasce, non a caso anche lui nel Settecento, essenzialmente come caso specifico di un diritto naturale, quello alla proprietà dei frutti del proprio lavoro. Se chi realizza un tavolo possiede quel tavolo e può farne quello che vuole – usarlo, regalarlo, venderlo, distruggerlo – anche chi scrive un libro ne è il proprietario e può farne ciò che vuole. Anzi, argomenta Diderot in un’opera del 1763, i libri scaturiscono direttamente dall’anima degli esseri umani. Insomma, il tavolo rimane un oggetto esterno, l’opera fa invece parte dell’identità del suo autore o della sua autrice.
Ora, non è che queste cose le ha inventate Diderot e prima del 1763 – o in generale prima dell’Illuminismo – a nessuno importasse chi avesse scritto cosa. Ma sospetto fosse principalmente una questione di interpretazione e di prestigio. Sapere che quel libro è stato scritto da una certa persona anziché da un’altra mi aiuta a capirne il significato e l’importanza. E dall’altra parte se sanno che quell’opera molto importante e apprezzata l’ho scritta io, magari qualche persona importante mi darà un incarico di prestigio. Ma nella storia umana è spesso capitato il contrario, ovvero di scrivere qualcosa spacciandola come opera di un’altra persona per dare importanza a quel testo, e del resto vai a sapere cosa ha realmente scritto Omero, ammesso che sia mai esistito.
Prima ho scritto che il diritto d’autore e il copyright nascono non a caso nel Settecento. È il secolo dell’Illuminismo e della rivoluzione industriale, due eventi che trovano una sintesi nell’idea del self-made man, dell’uomo che si è fatto da solo. È Robinson Crusoe, quello che arriva su un’isola deserta e reinventa l’agricoltura, l’allevamento, l’ingegneria eccetera, diventando re dell’isola. Poi, a rileggere con un po’ di senso critico il romanzo di Daniel Defoe, ci si rende conto che in realtà non fa affatto tutto da solo, ma sfrutta conoscenze e risorse della società nella quale è cresciuto, ma anche questa “dimenticanza” fa parte della retorica del self-made man.
È stata questa rivoluzione, tanto economica quanto culturale, che – certamente modificando idee già presenti – ha ridefinito il concetto moderno di autore. E lo stesso sta accadendo adesso con le intelligenze artificiali generative, o almeno così sostiene David J. Gunkel in un lungo e interessante articolo. Anche qui, non è che sia una cosa saltata fuori dal nulla: la retorica della rivoluzione non deve farci pensare a eventi improvvisi e inaspettati. E infatti il titolo dell’articolo di Gunkel, AI Signals The Death Of The Author, riprende un celebre saggio di Roland Barthes.
Riassumo brutalmente la tesi di Gunkel/Barthes: ci deve davvero fregare qualcosa dell’autore? Se un testo è ben scritto e presenta in maniera efficace idee che vale la pena conoscere e discutere – e questa descrizione credo valga sia per la letteratura sia per la saggistica –, importa davvero sapere se a scriverlo è un professore di communication studies in una università americana, un giornalista che nel tempo libero scrive una newsletter di cazzeggio filosofico, uno dei più importanti semiologi di sempre o una intelligenza artificiale generativa alla quale è stato dato il giusto prompt? Certo, i Large Language Models – come tecnicamente dovremmo chiamare le IA tipo ChatGPT – non hanno una immagine del mondo, non sanno cosa sia nella realtà un cane ma sono plasmate da testi che parlano di cani, un numero di testi che un essere umano non potrebbe mai leggere. Lo si ripete spesso, l’ultimo è Walter Quattrociocchi sul Corriere della Sera, ma consiglio soprattutto di leggere i contributi di Gary Marcus. L’obiezione di Gunkel è: e quindi?2 Se, ripeto, un testo è ben scritto e presenta in maniera efficace idee che vale la pena conoscere e discutere cambia qualcosa che a produrlo sia stato un “pappagallo stocastico”?
La tesi di Gunkel è tuttavia molto più elaborata. Le IA generative potrebbero essere l’occasione per liberare il testo dal dover rappresentare il pensiero di chi lo ha scritto, liberando al contempo chi lo legge dalla necessità di cercare questo pensiero originario. Spostare il peso sul testo significa in realtà spostarlo su chi quel testo lo legge, favorendo il pensiero critico. E su questo punto Gunkel mi sembra l’intellettuale che, di fronte allo sfaldamento dell’Impero romano, gioisce perché così potremo liberarci dalle storture di quella società e fondarne una migliore – che per carità, il Medioevo non furono quei “secoli bui” descritti dalla propaganda rinascimentale, però almeno c’erano strade e acquedotti il che non era male.
Pessimisticamente, o realisticamente, più che l’avvento del lettore critico temo la diffusione del lettore acritico e sommerso da quantità ingestibili di “AI slop”, termine che potremmo tradurre con “brodaglia da IA”.
C’è tuttavia un altro motivo per cui penso che ci serva ancora, un concetto relativamente forte di “autore”. A dire il vero sarebbero due, i motivi, visto che quel sistema del diritto d’autore nato nel Settecento garantisce – seppure in maniera decisamente imperfetta – degli introiti a chi scrive e non vedo alternative realistiche all’orizzonte, per mantenere vive certe professioni intellettuali.
Il vero punto è comunque un altro: la responsabilità. Può andare bene leggere un testo e non preoccuparmi dell’identità, e delle intenzioni, di chi lo ha scritto. Ma voglio che qualcuno si assuma la responsabilità – culturale e ideologica, lasciamo da parte eventuali questioni penali – di quel testo. Anche se lo ha scritto una intelligenza artificiale.
In poche parole
Sono giorni incasinati e le segnalazioni sono ahimè poche. Sempre in tema IA generative, il Washington Post ha un bel test3 sulla comprensione dei testi, interessante non solo per il risultato e l’analisi, ma per la conclusione: And for anything that’s actually important in your life, it’s definitely worth taking the time to read it yourself.
Su The Atlantic, invece, Arthur C. Brooks spiega il concetto di “quiet ego”, una sorta di terza via tra altruismo ed egoismo che richiede – paradosso significativo – un intenso lavoro di auto-osservazione e auto-riflessione. Alla base vi sono quattro idee chiave: identità inclusiva (in pratica capire che io sono io, ma nel mio essere io sono anche le persone a me vicine), capacità di assumere prospettive altrui, orientamento alla crescita e consapevolezza distaccata.
In pochissime parole
Date le mie scarse conoscenze entomologiche non garantisco che fosse proprio un grillo.
Ci sarebbe anche un’altra obiezione, secondo me trascurata: ok, le IA generative conoscono i testi e non il mondo, ma buona parte del nostro mondo è costituito da testi e il resto è spesso conosciuto attraverso i testi.
Link accessibile: archive.is/uFber.