Ciao!
Volevo scrivere di scienza e movimento woke – quelli attenti alle ingiustizie sociali, per capirci –, poi mi sono imbattuto in un grafico estrapolato dal Digital News Report del Reuters Institute for the Study of Journalism. Il tema riguarda, ovviamente, il nostro consumo di notizie; o meglio il non consumo, ovvero chi evita intenzionalmente le notizie.
Prima, però, una foto scattata qualche giorno fa alla foce del Cassarate a Lugano.
‘Scappiamo, c’è una notizia!’
Dicevamo del grafico. Eccolo, tradotto in italiano da me medesimo:
All’inizio l’espressione “evitare attivamente le notizie” (“actively avoid the news” in inglese) non mi era chiara, perché pensavo alle notizie come a qualcosa che uno va a cercare attivamente, accendendo la radio all’ora del notiziario, andando a cercare un giornale (cartaceo o online). In questo scenario “evitare attivamente le notizie” ha senso tanto quanto evitare attivamente di scalare l’Everest: non è che se uno si distrae si ritrova al campo base in Nepal. Tuttavia il mio è uno scenario irrealistico: non solo uno che ascolta la radio può imbattersi nel notiziario senza aspettarselo, ma le notizie compaiono a tradimento in tanti flussi, dagli schermi informativi sugli autobus ai social network. E questo non piace a tante persone: quasi la metà nel Regno Unito e negli Stati Uniti, un po’ meno negli altri Paesi europei (non ho trovato dati per la Svizzera) ma comunque tante persone evitano le notizie. E sono in aumento. Perché?
Per il 43% degli interpellati si parla troppo di politica e di Covid, per il 36% le notizie hanno effetti spiacevoli sull’umore, un 29% si sente travolto dall’eccesso di informazione e un altro 29% considera l'informazione inaffidabile (quest’ultima cosa è particolarmente per i repubblicani negli Stati Uniti; verrebbe quasi da chiedersi come mai). Da notare che, soprattutto chi ha meno di 35 anni trova difficile comprendere le notizie.
Che dire di questi dati?
Direi due cose. La prima è che secondo me questi dati vanno letti considerando il giornalismo come un contenuto di intrattenimento. Certo sono cose molto diverse, ma alla fine chi guarda il telegiornale ha come alternative una serie tv o un quiz, chi legge un giornale ha come alternative libri e riviste, chi guarda un sito di news ha come alternative il chiacchiericcio dei social media eccetera. Mi rendo conto che è un po’ antipatico da dire, soprattutto avendo presente tutto il discorso – che rimane valido – sull’importanza di un’informazione libera e indipendente, ma le cose stanno così e dimenticarsene rischia di portare ad avere un cattivo giornalismo.
Perché, ed è la seconda cosa dire, forse non è così sbagliato stare alla larga dalle notizie. È la tesi di un libro di Rolf Dobelli di cui avevo scritto un paio di anni fa e recentemente sullo stesso tema ha scritto un breve saggio (in inglese) il filosofo Massimo Pigliucci. E devo dire che, per un certo tipo di informazione – grosso modo le notizie brevi – è una posizione sensata.
Gli occhi dell’intelligenza artificiale, identità rubate e un po’ di woke
Gli occhi forse non sono lo specchio dell’anima ma rivelano un sacco di cose. Soprattutto se a guardarli – o meglio a guardare una scansione della retina – è un’intelligenza artificiale debitamente addestrata. Ne scrive Eric Topol dal punto di vista medico ed è impressionante quello che una macchina è in grado di rilevare, dal genere del soggetto a malattie come diabete e Alzheimer. Topol è impressionato dalla potenza di questo “occhio della macchina”; io nel mio piccolo mi interrogo sulle conseguenze per la privacy: forse mi sbaglio, ma nell’identificazione biometrica la scansione della retina era considerata un sistema “sicuro” in quanto non permetteva di risalire a informazioni personali. Grazie all’intelligenza artificiale non è più così e qualche domanda su queste “informazioni personali che non sappiamo essere così personali” dovremmo farcelo.
Su Query online Stefano Bagnasco racconta la curiosa storia di alcuni furti di identità abbastanza curiosi, perché a essere rubata è l’identità di riviste scientifiche.
Su Chiedi le prove invece si prova a fare il punto sulla prima colazione. Che è importante, anche se non è il pasto più importante della giornata come spesso si dice. Solo che è una cosa difficile da studiare scientificamente, visto che non puoi dare una “colazione placebo” a metà del campione che studi.
Chiudo con due segnalazioni veloci su quello che doveva essere il tema di questa newsletter: il famigerato woke. La prima è un articolo che ho scritto non sul woke ma sul “woke” – nei libri di filosofia del linguaggio le virgolette indicano che non ci si riferisce del concetto espresso da quella parola (quindi la giustizia sociale, le pari opportunità, Velma Dinkley di Scooby-Doo che è lesbica…) ma proprio della parola stessa che indicava una generica consapevolezza verso un tema e adesso è diventato, in molti ambienti, un insulto.
La seconda segnalazione è una trasmissione di Rete Due in cui si parla di “decolonizzare l’oriente”, partendo dalla decisione dell’università di Oxford di passare, per una sua facoltà da “Oriental Studies” a “Asian and Middle Eastern Studies”.
Un grazie a chi è arrivato a leggere fino in fondo e a settimana prossima.