Ciao,
sono Ivo Silvestro e questa è la 109ª edizione della mia newsletter settimanale di segnalazioni e riflessioni.
Oggi parliamo di disforia di specie, di sovrappopolazione e serrature pompeiane.
Ma prima una foto: due sculture sotto la pioggia (per non parlare del fotografo, che si è accorto in quel momento di aver perso l’ombrello che teneva sempre nello zaino).
La disforia di buon senso
Qualche settimana fa mi sono imbattuto in un articolo sulla disforia di specie, a proposito a un caso in una scuola scozzese – e ora dovrei spiegare che cosa è, la disforia di specie, come è giusto fare con tutti i concetti insoliti o poco conosciuti. E in un certo senso lo faccio, dicendo che la disforia di specie è una stronzata. E scrivo “stronzata” non perché sia talmente esasperato da ricorrere a volgarità,1 ma come termine tecnico filosofico, riferendomi al notevole librino di Harry Frankfurt, On Bullshit tradotto in italiano come Stronzate:2 una stronzata è una cosa che viene detta senza preoccuparsi di dire qualcosa di vero e, secondo Frankfurt, è peggio della bugia, perché una persona bugiarda riconosce l’importanza della verità, il propalatore di stronzate no, a lui interessano altre cose (di solito fare bella figura).
Ecco, fatta questa premessa, torniamo alla disforia di specie che potremmo definire come quel fenomeno in cui un essere umano sente di appartenere a un’altra specie. Ma forse sarebbe meglio dire “quei fenomeni” perché con quel termine si indica un po’ di tutto, da visioni spirituali e animistiche della vita, dell’universo e di tutto quanto a manifestazioni di forme di neuroatipicità. Potremmo anche includere casi di una forte affinità verso certe specie animali e pure vari esempi letterari – i primi che mi vengono in mente sono, molto banalmente, La metamorfosi di Kafka e Le metamorfosi di Ovidio – dove la trasformazione in animali ha valore simbolico e metaforico.
Di studi scientifici sul tema ce ne sono pochi e, da una rapida scorsa a Google Scholar, sono perlopiù aneddotici (relativi principalmente alle comunità Otherkin).
Questa indeterminatezza certo non aiuta, ma ovviamente non basta a definire il tema una stronzata – dopotutto, siamo circondati da termini vaghi e va benissimo così. Dico che la disforia di specie è una stronzata perché è utilizzata in ambienti reazionari per attaccare le persone transgender e in generale tutta la filosofia di genere. E li capisco: fossi un reazionario, sarebbe difficile resistere alla tentazione di un così allettante esempio di piano inclinato: vedete dove arriveremo, se concedete a un ragazzino di comportarsi da ragazza, agli uomini-lupo, gli uomini-gatto. Ma spero che, anche da reazionario, avrei il buon senso di evitare simili fallacie.3
Ma c’è un altro aspetto per cui la disforia di specie – o meglio la maggior parte dei discorsi sulla disforia di specie – è una stronzata: le stronzate sono spesso pericolose e fanno male alle persone.
All’inizio avevo accennato a un caso in una scuola scozzese: nel leggere di un ragazzo al quale era stato concesso di identificarsi come lupo ero perplesso, ma mi ero limitato a una veloce ricerca online senza trovare nulla di rilevante – praticamente lo stesso articolo semi-scandalizzato che rimbalzava tra varie testate conservatrici. Per fortuna Brian Eggo ha fatto uno sforzo in più e, come riporta in un bell’articolo pubblicato su The Skeptic, ha scoperto una storia molto più banale e triste. Come da tradizione di questa e altre testate, il titolo dell’articolo dice tutto: The “child identifies as wolf” story was only ever about bullying, not ‘species confusion’, quella del bambino che si identifica come lupo è sempre stata una storia di bullismo, non di confusione di specie.
Abbiamo un ragazzino vittima di bullismo che, immagino come meccanismo di difesa ma non essendo esperto preferisco evitare di dire stronzate, ha tirato fuori la storia del lupo, peraltro senza comportarsi “da lupo” o fare richieste particolari alla scuola – e di fronte a una situazione di disagio che merita innanzitutto rispetto, abbiamo il Daily Mail che titola “Howling mad!”.
In poche parole
L’amico Alfonso Lucifredi ha scritto un libro sulla sovrappopolazione che sembra molto interessante. Dico “sembra” perché ancora non l’ho letto, ma ho seguito una sua presentazione al CICAP Fest.
Ho così scoperto che della sovrappopolazione si parla molto meno di un tempo perché le associazioni ambientaliste hanno, e giustamente, sviluppato una “sensibilità sociale”, il che rende più difficile dire che siamo troppi.
Altro dato che mi ha incuriosito: l’indice di fecondità nelle zone rurali di un Paese ricco è più alto di quello di una città in un Paese a basso reddito.
Sempre al CICAP Fest ho seguito una presentazione dello storico e ingegnere Vittorio Marchis sulle misure di Pompei. Le case romane erano tutte “non standard”, costruite senza particolare attenzione alle unità di misura – insomma, l’artigiano costruiva la porta in modo che bene o male ci passasse una persona, senza preoccuparsi di quanti piedi, palmi, once o dita fosse venuta. A meno che non servisse un pezzo costruito da qualche altro artigiano di fuori Pompei, come una serratura o una vera da pozzo: in quel caso ci si doveva mettere d’accordo sulle dimensioni e quindi stabilire una misura precisa (“il buco lo faccio esattamente di quattro dita di diametro”) era importante.
Immaginiamo che la terra sia una sfera perfetta senza rilievi o altro e circondiamola con una corda della precisa lunghezza della circonferenza terrestre – che sono circa 40mila chilometri. Adesso immaginiamo di allungare di un metro quella corda, sollevandola in maniera uniforme dal suolo. Sotto la corda ci passerebbe un gatto?
Quando Daniele Gouthier, sempre al CICAP Fest, ha posto questa domanda ho risposto, intuitivamente, di no: un metro su 40 milioni di metri, la differenza neanche dovremmo vederla, figuriamoci farci passare sotto un gatto. Ma se facciamo i conti vediamo che l’aumento del raggio (cioè di quanto possiamo alzare la corda dal suolo) è sempre lo stesso per ogni metro in più di circonferenza: circa 15 centimetri. Affascinante.
In pochissime parole
Una mia intervista4 alla filosofa Barbara Carnevali sulle apparenze sociali.
Cosa non torna nella storia del DNA di Cristoforo Colombo.
O diciamo non solo per quello.
Qui c’è il testo integrale in inglese; l’edizione italiana è persino scomparsa dal sito di Rizzoli il che abbatte ulteriormente la mia fiducia nell’editoria.
Va comunque detto che alla base di queste critiche vi è la convinzione (errata) che il genere sia un fenomeno esclusivamente biologico, e se si parte da questa idea una certa continuità c’è, tra disforia di genere e disforia di specie.
Link accessibile: archive.is/dHs0a.
Ciao Ivo, sei sempre sorprendente. Bello leggerti! Cari saluti,
Franca